Cultura e Spettacoli

Il viaggio solitario di De Felice nel Paese del "tutti a casa"

Lo studioso capì per primo che fu l'andamento delle vicende belliche, non l'antifascismo, ad allontanare la nazione dal regime fascista

Il viaggio solitario di De Felice nel Paese del "tutti a casa"

Dall'ultimo scorcio degli anni '80, mentre stava preparando i volumi dedicati a Mussolini l'alleato, Renzo De Felice cominciò a riflettere sempre più sul tema della nazione. Voleva capire in qual modo potesse essere maturato il processo di delegittimazione del regime che, iniziato prima della guerra con la stipula dell'alleanza con la Germania e l'adozione della politica razziale, aveva portato alla catastrofe. Si rese presto conto che determinante, ai fini del tracollo, era stato il cattivo andamento delle operazioni belliche: ben poco, infatti, aveva pesato l'antifascismo. Il regime aveva cominciato a vacillare quando si era diffusa la convinzione - sull'onda delle pessime notizie militari che continuavano a giungere e soprattutto a seguito dei bombardamenti alleati sulle principali città italiane - che le sorti del conflitto erano ormai segnate. Si succedettero, a cascata, il collasso del fronte interno, la crisi militare e politica del luglio 1943, la caduta di Mussolini, la costituzione del governo Badoglio, l'armistizio e il trauma dell'8 settembre 1943.Proprio questa data assunse, agli occhi di De Felice, un valore simbolico, di catastrofe nazionale destinata a riflettersi sul futuro del Paese anche in epoca post-fascista. Quel giorno divenne per lui una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano: allora si consumò la «morte della patria» e iniziò un processo di «svuotamento del senso nazionale». Si vide, infatti, come la maggioranza del Paese - dalla borghesia agli operai - non optasse, se non in minima parte, per precise scelte politiche o di impegno civile, ma cercasse di non rimanere coinvolta e di non prendere una posizione chiara attestandosi in una sorta di «zona grigia», preoccupata di sopravvivere alla tempesta.Era stato, forse per primo, un grande giurista e fine scrittore, Salvatore Satta, in un saggio intitolato De Profundis, a parlare, con riferimento all'8 settembre, di «morte della patria» e quindi, implicitamente, di morte della nazione, nella misura in cui la nazione identifica il vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica. Poi, a sottolineare l'entità dello sbandamento morale e del disastro materiale, erano venuti il cinema si pensi a Tutti a casa di Comencini e la letteratura. Le pagine, per esempio, ciniche e sofferte, dedicate da Curzio Malaparte nel romanzo La pelle alla giornata dell'8 settembre sono inquietanti, con quella rappresentazione plastica di ufficiali e soldati i quali, alla notizia dell'armistizio, facevano a gara «a chi buttava più eroicamente le armi e le bandiere nel fango». Una rappresentazione conclusa da Malaparte con l'amara e moralistica riflessione: «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla». Per De Felice il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, diventò «la data simbolo del male italiano», la data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». Quel trauma non aveva avuto precedenti. L'altra data tragica della storia contemporanea italiana, quella della sconfitta di Caporetto, era stata riassorbita dal Paese e dalla classe dirigente e si era annullata nella grande offensiva finale di Vittorio Veneto.

Nel caso dell'8 settembre le cose si svolsero altrimenti. Erano venuti meno, secondo De Felice, gli «anticorpi» perché «il monopolio fascista del patriottismo», realizzato con l'identificazione del «primato della nazione col primato del regime», aveva minato fin dalle origini quella «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata il 25 luglio. Il fascismo-regime aveva puntato sulla carica emotiva del sentimento nazionale come strumento per «accelerare la nazionalizzazione delle masse, per omogeneizzare la borghesia, per integrare nello Stato fascista quei ceti che erano stati esclusi dallo Stato liberale, per alimentare il consenso in pace e la mobilitazione in guerra». Il disastroso andamento del conflitto, prima, e la disfatta militare, poi, travolsero, insieme al regime, anche l'idea di nazione «come valore unificante di tutti gli italiani».Questa analisi di De Felice che collega l'idea della «morte della patria» all'indebolimento etico-politico del Paese si connette alle riflessioni dello studioso sulla crisi dell'idea di nazione e alle sue considerazioni sulla crisi funzionale della democrazia nella società contemporanea, in particolare nell'Italia post-fascista. Nel dopoguerra si affermò una vulgata storiografica, preoccupata di «legittimare con la vittoria antifascista il nuovo Stato» e «depurare dai veleni del nazionalismo la politica del dopoguerra e la ricostruzione democratica». La guerra fredda aggiunse alla dicotomia fascismo-antifascismo quella comunismo-anticomunismo. Tutto ciò ostacolò in Italia la costruzione di una democrazia compiuta basata sul confronto fra destra e sinistra, sull'alternanza fra moderati e progressisti, sul ricambio delle classi dirigenti. La democrazia italiana nacque, insomma, bloccata.Per questo De Felice, alla metà degli anni '90, poco prima della morte, riconobbe che in Italia si registrava una situazione di «crisi di democrazia» non tanto, com'era avvenuto in epoca pre-fascista e fascista, nel senso che i «valori democratici» fossero contestati, ma nel senso che la democrazia italiana non assolveva a tutte «le nuove necessità del paese». Pur rimanendo «sempre l'unico sistema valido», per lui, essa andava riformata perché non riusciva a tenere «il passo con la situazione, con il progresso tecnologico, con lo sviluppo economico, con la necessità di rapide decisioni, con il tecnicismo di scelte efficaci».

La prima cosa da fare sarebbe stato, però, il recupero del sentimento della nazione. A chi gli obiettava che l'idea di nazione era stata surrogata, dopo l'8 settembre 1943, dal cosiddetto «patriottismo della Costituzione» come fondamento della nuova repubblica democratica, De Felice rispondeva che «senza la Nazione non ci può essere Costituzione» perché i valori che danno corpo e sostanza al «patriottismo della Costituzione» sono espressi non da un'astrazione giuridica ma dalla storia, dalla cultura, dalle vicende del Paese.Il sentimento nazionale, l'idea di nazione, era dunque, per De Felice, la premessa essenziale e ineludibile per un'autentica e compiuta realizzazione dello Stato democratico. Discendono da qui le affermazioni, contenute in particolare negli ultimi tomi dell'opera su Mussolini e il fascismo, su natura e significato della Resistenza, sul rapporto tra antifascismo e Resistenza, sulle origini del sistema partitocratico italiano, sulla prima repubblica.

Affermazioni che non erano dettate da retropensieri di natura politica, ma concludevano un lungo, coerente e sofferto itinerario di ricerca storiografica, che ha sempre avuto presenti i temi di nazione e democrazia.

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