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Vita e morte di Goebbels: Il fragile ma instancabile "megafono" del nazismo

Peter Longerich racconta in tutti i dettagli l'ascesa del gerarca e i suoi rapporti con Hitler

Vita e morte di Goebbels: Il fragile ma instancabile "megafono" del nazismo

Joseph Goebbels fu, del ristrettissimo numero dei dirigenti del regime nazista, l'unico a voler seguire Hitler fino al suicidio. L'intenzione di porre fine ai suoi giorni, e a quelli dei suoi familiari, nel caso di una resa incondizionata della Germania, Goebbels l'aveva resa nota da tempo sostenendo pubblicamente, in un discorso radiofonico, che in quella eventualità la vita non sarebbe più stata «degna di essere vissuta».

Così, di fronte alla sprezzante chiusura opposta da Stalin al tentativo di negoziare la pace con l'Unione Sovietica dopo la morte del Führer, Joseph e Magda Goebbels uccisero, nel cupo Bunker di Berlino, i propri sei figli e si suicidarono. Non si trattò tanto di un gesto disperato, quanto piuttosto di una patetica messa in scena allestita a beneficio dei posteri per ribadire il concetto della «fedeltà fino alla morte» e rappresentare un esempio o un modello per il futuro. Nella sua corposa e documentata opera dedicata all'esponente nazista e intitolata Goebbels. Una biografia (Einaudi, pagg. XXVI- 894, Euro 44) lo storico inglese Peter Longerich ha osservato in proposito che «l'atto radicale di uccidere l'intera famiglia rappresentò» agli occhi di Goebbels «l'opportunità per dimostrare al mondo di essersi votato a Hitler completamente, fino alle estreme conseguenze» e, quindi, di essere il solo dirigente nazista «pronto a rinnegare i principi fondamentali e i vincoli umani in virtù di un giuramento di lealtà incondizionata». In altre parole, il suicidio-omicidio di Goebbels sarebbe stato un «gesto radicale» finalizzato a «reinterpretare» una «esistenza fallimentare» in «una biografia caratterizzata in apparenza da perfetta linearità e devozione incontrollata» e trasformarla in un modello virtuoso. Il comportamento di Goebbels, alla luce dei moderni studi psicoanalitici, sarebbe spiegabile, secondo Longerich, come un «disturbo narcisistico di personalità» proprio di un individuo il cui impulso principale era sempre stato quello di cercare la stima e l'approvazione altrui, nel caso specifico di un idolo politico, Hitler, capace di incarnare l'intero popolo tedesco.

La chiave interpretativa suggerita da Longerich per comprendere la figura e la personalità di Goebbels è interessante e suggestiva, ma l'importanza della biografia scritta dallo storico inglese non sta tanto nella dimensione interpretativa quanto piuttosto nel fatto che si tratta di un imponente lavoro biografico di tipo classico, completo e documentato, che ripercorre l'intera vita, privata e pubblica, di un personaggio che ebbe, proprio all'interno del Terzo Reich, un ruolo di primo piano. A vederlo, nelle foto d'epoca, non si direbbe che Goebbels abbia potuto riscuotere il successo che ebbe e ricoprire ruoli che lo avrebbero reso uno degli uomini più potenti del regime. Il suo aspetto, in fondo, gracile com'egli era e con un handicap fisico che si trascinava dall'infanzia, contraddiceva il modello dell'uomo ariano che rappresentava l'ideale del nazionalsocialismo. E questo handicap, insieme all'oppressività dell'ambiente piccolo-borghese dal quale proveniva, dovette pesargli molto e fu, probabilmente, all'origine delle crisi depressive che periodicamente lo colpirono. I suoi primi tentativi di affermarsi come scrittore o giornalista culturale e politico vennero frustrati malgrado la sua convinzione di essere in qualche misura predestinato a un futuro importante.

L'incontro con Hitler fu determinante. Il giovane «dottor Goebbels» lo conobbe di persona nel 1925 in occasione di un convegno di militanti a Weimar e ne rimase folgorato al punto da scrivere nel sua diario: «Sono un'altra persona. Ora so che colui che ci guida è nato per essere un capo. Per quest'uomo sono disposto a sacrificare ogni cosa». Per questo «intellettuale sconsolato e fallito», come lo definisce Longerich, Hitler divenne un idolo da adorare o, forse, meglio, il Messia di una nuova religione politica. Il rapporto fra i due divenne sempre più stretto. Hitler lo nominò Gauleiter di Berlino con il compito di guadagnare la città al nazionalsocialismo e Goebbels, come scrive Longerich, in quella «capitale frenetica e avida di scandali» sviluppò «un proprio stile agitatorio, un misto di istigazione al tumulto e azioni violente che mirava a convogliare a ogni costo l'attenzione sul partito, a rubare la scena e lo spazio pubblico alla Sinistra e provocare le autorità». Tuttavia, come emerge bene da questa biografia, Hitler, almeno all'inizio del sodalizio, tenne Goebbels a una certa distanza perché i due avevano una diversa visione della strategia politica da seguire: Hitler, infatti puntava a conquistare il potere mediante l'alleanza con le forze conservatrici, Goebbels, più radicale e contrario a ogni compromesso, puntava a portare la Nspd al potere da sola.

Dopo la conquista del potere da parte dei nazisti, Goebbels venne nominato ministro della propaganda. Thomas Mann lo definì subito uno «storpio nel corpo e nell'animo» che mirava «deliberatamente, con disumana bassezza, a elevare la menzogna a divinità, a sovrana del mondo». Albert Speer, in seguito, alla fine degli anni settanta, avrebbe detto che Goebbels stato era «genio della propaganda» aggiungendo: «penso si possa dire che fu lui a fare Hitler, esattamente come Hitler fece lui. Era una personalità molto complessa, d'una freddezza assoluta. Lì dove il nazionalsocialismo si è espresso nel modo peggiore, nei provvedimenti contro gli ebrei in Germania, è stato lui la forza motrice». Il dato di fatto è che lo zelante luogotenente del Führer fu non soltanto il creatore di un «sistema» di controllo dell'opinione pubblica e di una «struttura» propagandistica pervasiva m anche il sostenitore più acceso della linea radicale della «guerra totale» e un irriducibile antisemita. Fu, in sostanza, colui che, attraverso una specie di identificazione narcisistica con il suo idolo, accompagnò e sostenne la parabola hitleriana.

Peter Longerich analizza con grande finezza il rapporto fra Hitler e Goebbels al di là dei puri e semplici dati fattuali indagando nelle loro psicologie e fondando la ricerca sia sulla vastissima documentazione archivistica e sulla letteratura storiografica sia su un esame critico delle decine di migliaia di pagine diaristiche nelle quali il gerarca nazista ha fornito una sua autorappresentazione. Longerich dimostra come in Goebbels non sia possibile ritrovare un compiuto sistema di idee politico-programmatiche che andassero oltre il generico nazionalismo, l'istintiva predilezione per un governo autoritario guidato da un capo carismatico e, soprattutto, un antisemitismo viscerale. Quel che emerge, invece, è la sua dipendenza psicologica da Hitler, che andava oltre un normale rapporto di «lealtà» politica affondando le proprie radici in un bisogno di narcisistica ricerca di approvazione.

Eppure ed è questo un risultato innovativo della ricerca di Longerich il Führer non coinvolse quasi mai Goebbels nella maggior parte delle scelte del regime in politica interna o in politica estera e, al più, si limitò ad informarlo.

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