Cultura e Spettacoli

Le spine nel cuore della poesia

Un’umanità dolente popolata da poveri, ciechi, mendicanti, amanti impossibili. E soprattutto donne tradite e vilipese

Non si finirebbe mai di cercare indizi nelle poche cose conosciute della vita giovanile di Rainer Maria Rilke (4 dicembre 1875-29 dicembre 1926), di individuare circostanze e nessi, negli oltre vent’anni passati a Praga, per spiegare come mai, ad esempio, in quello stesso clima culturale, Kafka, di qualche anno più giovane, si avviasse a elaborare di lì a poco, e certo non solo per indole diversa, ma per maggiore congruità al genio del luogo, quella lingua precisa e tagliente, quel tedesco metafisico con cui sezionare, come da manuale, i fantasmi dell’anima, mentre Rilke sviluppa il suo intimismo impressionistico, coltiva le oscillazioni dei sentimenti, e passa dal lirismo sfuggente al quadretto nitido e descrittivo.
Nella nostra indagine, resteremmo sempre con le stesse poche certezze: che Rainer, anzi René, come si chiamò fino ai 20 anni, nasceva in una famiglia della piccola borghesia di origine austriaca; che la madre, moglie frustrata e poi separata di un impiegato delle ferrovie, covava forti nostalgie aristocratiche; che fin da bambino René aveva assorbito probabilmente le smanie aristocratiche della madre, e s’era in qualche modo convinto, forse a giustificazione di lei, di certe origini nobiliari, sviluppando anche un signorile rancore col mondo per il fatto che «i Rilke» non avessero più un loro feudo; che la madre lo educò in maniera rigida e manierata; che frequentò due scuole militari e l’accademia commerciale di Linz, convincendo poi i genitori a farlo studiare privatamente per raggiungere la maturità; che, dopo l’iscrizione coatta alla facoltà di legge a Praga, egli trovò inaccettabile la prospettiva di un lavoro incompatibile con la scrittura e la poesia, e che infine lasciò Praga per Monaco. Era il 1896.
Sul Rilke giovane di questi ultimi anni praghesi, che segnano la sua acerba formazione letteraria, viene a gettare luce una preziosa raccolta di ventitré racconti, molti dei quali inediti, presentata ora con il titolo Serpenti d’argento (Guanda, pagg. 234, euro 16,50, con gli apparati critici di August Stahl e la traduzione di Nicoletta Dacrema). Certo, in questi racconti che con ogni probabilità Rilke progettava allora di raccogliere in volume, le capacità creative sono ancora incerte. Non vi si troveranno le poderose evocazioni con cui, di lì a qualche anno soltanto, egli saprà riempire i Quaderni di Malte Laurids Brigge, catalogo delle cose viste, sofferte e nominate per sempre dal giovane intellettuale danese che va ad abitare a Parigi, il regesto di incontri e luoghi sentiti con una ricettività dolorosa o esaltante, come l’angoscia percepita in un locale, che diventa propria e cosmica, come la pietà per un fiore visto schiacciato sul marciapiede; né vi si troverà il Rilke poeta «orfico» delle Elegie di Duino, il castello presso Trieste dove egli iniziò l’opera più alta e definitiva che supera ogni precedente incompiutezza di Malte, ogni sua angoscia di coscienza dostoevskijana, comprendendo ora che vita e morte non sono contrapposte, ma momenti colloquianti, espressioni dell’eterno divenire.
Eppure, i personaggi che incontriamo in questi racconti, e certi momenti di attenzione sospesa, certa perdizione di destini, sembrano anticipare personaggi sia dei Quaderni sia delle Elegie: poveri, ciechi, mendicanti, amanti impossibili. A portare il maggior peso della sofferenza, sono soprattutto le donne, tradite, abbandonate da compagni infedeli o indegni, oppure, se artisti, impossibilitati a condurre una vita normale e ad avere un’unione duratura, come nel racconto dei Due sognatori, dove i due amanti rinunciano alla loro relazione perché - lui pittore, lei figlia di pittore - sono terrorizzati dalla banalità del quotidiano.
Ma è la morte, naturalmente, che incombe su molte storie. I serpenti d’argento, nel racconto notturno e silvano pieno di un simbolismo naturalistico che dà il titolo al libro, sono le metalliche spire d’acciaio delle rotaie che si snodano attraverso il bosco tra cui va a posarsi l’uomo disperato che ha perso la sua sposa e la sua speranza. E la morte è a volte salvifica della creazione e dell’arte, come nella figura dell’austero e misterioso Consigliere Horn, che aveva riscattato la morte della promessa sposa e la propria vita smarrita innalzando in onore di lei un monumento poetico imperituro, e poi aveva perduto il frutto di quell’enorme lavoro nell’incendio della sua casa: ora vecchio, confida all’adolescente aspirante poeta (Rilke), e muore, in un ultimo sussulto di creazione, nell’atto di ricominciare a scrivere il suo grande poema.
Ma il racconto più interessante, forse, con una perfetta saldatura di impressionismo simbolista e di Jugendstil, è Requiem, di cui vale la pena di citare l’incipit: «In qualche tempo sono vissuti, da molto tempo entrambi sono morti. So che sulle loro tombe dimenticate la primavera caccia di frodo, o che un salice ignaro si china sulla stele dei loro sepolcri e nella brezza di maggio, con dita esitanti, esplora i nomi, come per leggerli». È la storia di un’amicizia perfetta, tra un bambino e una ragazza «che da cinque anni gli uomini chiamano signorina». Essa è sorridente e solare, insieme vanno per i campi a raccogliere fiori. Lui è un fanciullo pallido, di quelli che crescono nelle case austere e grigie della città, ma con lei è felice e raggiante. «Non dare i fiori a uno sconosciuto», le dice. Lei lo guarda stupita e d’un tratto gli preme le labbra ardenti sulla guancia, un bacio che gli resta doloroso come una ferita, nel ricordo di lei, tanto tempo fa morta e perduta.


Di altri baci, e con ben maggiore differenza d’età, avrebbe sofferto e goduto Rilke subito dopo questo racconto, del ’97, quando a Monaco, dove era appena arrivato, arrivò anche Lou Andreas-Salomé.

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