Splendori (pochi) e miserie (molte) del rock

Suo padre era il tecnico del suono che registrò le memorie di Churchill e che considerava Elvis (e persino Robert Mitchum) un maniaco sessuale. Per reazione Nick Kent cadde preda dell’incantesimo del rock e ne divenne uno dei critici inglesi più brillanti (dalle colonne di New Musical Express) raccontandone in prima persona miserie e splendori. Kent conobbe i Rolling Stones quando non erano nessuno ma provocavano già l’isteria sessuale di massa («mentre suonavano una ragazzina mi puntò un tacco a spillo alla gola intimandomi di cederle il posto in prima fila»); frequentò Bowie; fu picchiato da Sid Vicious. La sua vita è un’avventura raccontata senza sconti in Apathy for the Devil (editore Arcana, in uscita il 23 febbraio), che sposa letteratura e disperazione.
Per Kent la scintilla fu il tema dei Magnifici sette di Elmer Bernstein; violini, ritmo mariachi e melodia vivace. Ne fu sconvolto anche se «quel mondo che mi ammaliava non brillava per senso di pericolo ed eccitazione». Quel mondo che invece si aprì con i Beatles, perché nei loro brani «la sofisticazione dell’arte si fondeva con l’impatto viscerale del pop di massa». Mancava la cattiveria, l’edonismo, ma quelli arrivarono coi Rolling Stones. Nel ’63 un fan salì su un piccolo palco e afferrò una gamba di Jagger, che se ne liberò schiantandogli l’asta del microfono sul viso che cominciò a schizzare sangue e denti. «Una cerimonia voodoo finalizzata a risvegliare la libido dell’adolescente bianco», commenta Kent.
Nel ’66 scoprì il Dylan elettrico con The Band, «la prima volta che osservai gli effetti della droga: i suoi discorsi erano impacciati, la musica così alta che sembrava di esser in una stanza con un jet che scalda i motori». La droga che distrugge il rock. Si capisce dai primi show dei Pink Floyd dove Syd Barrett ha gli occhi come degli zaffiri che pian piano si riempiono di presagi colmi di sventura. La droga ha distrutto persino John Lennon: anche nello sballo bisogna esser professionisti e l’unico era Jimi Hendrix. «Pieno di acido tirava fuori i trucchi del chitarrista selvaggio. Era la sfrontatezza sessuale e le ragazzine attorno al palco erano così arrapate da cercare di toccargli i genitali». Quanti di noi hanno sognato con le canzoni di Cat Stevens? Non certo Kent che lo ricorda come il trovatore hippie e mistico da cameretta diventato il nuovo messia dei sensibili. Faceva impazzire le giovani donne borghesi: «Era così sdolcinato che mi faceva male ai denti. Oggi è noto come un devoto musulmano, ma ai tempi gli giravano attorno più donne che a Sinatra». Nel 1975 i Jethro Tull erano sul tetto del mondo e con l’America ai loro piedi. Kent li accompagnò in Usa ma non ne era affatto entusiasta: «Ian Anderson usa il flauto per dare un tono mellifluo al suo generico rock blues. Prima suonava per studenti che non si lavano, poi è saltato sul rock progressivo con madrigali elettrici abbelliti da testi che parlano di lascive nobildonne che frustano il sedere di giovani stallieri». Come può piacere questa roba a uno il cui idolo è Iggy Pop? Kent c’era quel luglio del ’72 al King’s Cross Cinema di Londra quando Iggy e gli Stooges suonarono per pochi intimi. «Si piegò a toccare il pavimento con la testa e poi lanciò il corpo in avanti. Mentre precipitava eseguì a mezz’aria un salto mortale. Atterrando con una piroetta continuò a strisciare tra i piedi del pubblico come un rettile». E che dire dei Led Zeppelin?: «Imbattibili, neanche gli Who al loro picco potevano competere. Erano i Cavalieri dell’Apocalisse che inventavano l’idea di punk rock al testosterone». Eppure erano strafatti e andavano in giro senza limousine né bodyguard ma solo con il manager Richard Cole e il gigantesco impresario Peter Grant (come dire la mafia russa in sole due persone) che un giorno, dopo un concerto di Elvis a Las Vegas, posò il suo enorme deretano su una poltrona in cui era seduto il fragile padre di Presley rischiando di schiacciarlo.
Naturalmente uno così ha preso le sue belle batoste. La sua invasione negli studi di Bob Marley non andò troppo bene. «Mi accolse con un sorriso da tagliagola e mi disse “rasclaat” che significa “sacco di merda” in giamaicano. Hanno creato la figura di Marley come un mistico semidio, ma il mio incontro mi fece capire che era un figlio di buona donna». Entrano di diritto nella storia le catenate che si beccò da Sid Vicious. Malcolm McLaren - secondo Kent - assoldò una squadra di hooligan che scatenava risse ai concerti. Una notte, al 100 Club di Londra, Vicious assalì Kent colpendolo alla testa di striscio.

Il mandante era McLaren: «Non riusciva a vedere i musicisti se non come gente in affitto per soddisfare le sue ambizioni da pappone». Eppure Kent avrebbe dovuto entrare nella scuderia di McLaren come chitarrista, con Chrissie Hynde, di una band dall’elegante nome Masters of the Backside (Padroni del didietro).

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