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Albertini, voce della Svizzera ci faceva "fuggire" dalla Rai

Romano trapiantato a Lugano, elegante, essenziale ci raccontava le partite che la nostra Tv trascurava

Albertini, voce della  Svizzera ci faceva "fuggire" dalla Rai

«Scende ora il nostro Pargaetzi». Il tono metallico, da Istituto Luce, raccontava la prova del gigantista Engelhard Pargaetzi, cittadino di Arosa, cantone dei Grigioni. Trattavasi, dunque, di uno sciatore rossocrociato a tutti gli effetti ma Giuseppe Beppe Albertini, nato a Roma nel Novecentoundici, amava la Svizzera dove si era trasferito nei giorni caldi precedenti la Liberazione e, dunque, lo slalomista Engelhard era un suo compatriota. Si raccontava, nei peggiori bar della capitale, che Beppe riuscì a sfuggire ai tedeschi, salendo su una carrozza, con tanto di cocchiere, e facendosi portare a spasso per ore ventiquattro. Mai lo avrebbero cercato e stanato a bordo di quel mezzo, mentre la rappresaglia proseguiva feroce, ovunque.

A parte l'episodio da cinema neorealista, Beppe Albertini era ed è rimasto figura, persona e personaggio inconfondibile, per professionalità e stile elegante, nel dire e nel fare. La RSI era la sigla della Repubblica sociale italiana che dal settembre del '43 all'aprile del '45 governò una parte dei territori italiani controllati dai tedeschi. Per Beppe Albertini la sigla diventò quella della Radio Svizzera Italiana. Al posto della carrozza Beppe si ritrovò su un vecchio autobus adattato a regia mobile, parcheggiato dinanzi alla sede della radiotelevisione, un ex deposito di tram, al Paradiso, cioè Lugano. Lo stesso autobus, con i vetri neri, sarebbe stato il veicolo itinerante dei primi anni della tivvù di Silvio Berlusconi. Perché proprio Canale 5 prelevò dalla RSI Albertini, per affidargli la telecronaca della Copa de Oro, il Mundialito per nazionali del 1980, in Uruguay, trasmesso in diretta. Il nostro Pargaetzi, dunque, diventò il nostro Ancelotti, goleador al debutto in azzurro in quel torneo sudamericano.

Ma Beppe non aveva perso il suo cordone con Lugano, infatti, insieme con Enrico Ameri, inviato di Radio Rai e con Paolo Taveggia, responsabile della missione Fininvest e patrimonio poi smarrito dalla stessa, decise di trascorrere l'ultimo dell'anno (il Mundialito si svolgeva in quelle date a Montevideo) in un ristorante che lo riportava a casa: La Capanna Suiza. Va da sé che la scelta provocasse un certo smarrimento, soprattutto in Ameri che, comunque, accettò l'invito. Albertini era maestro di parole, preferiva dire punto o rete (come Enrico Ameri) e mai gol, sfera e non pallone, le sue cronache di sci o di hockey, per la televisione svizzera del «nostro Pargaetzi», erano di stile e di sereno racconto. Così la finale della coppa d'Inghilterra e altre partite delle coppe europee negate dalla Rai e, invece, proposte puntualmente dalla RSI, visibile in Lombardia e Piemonte. Era, per noi drogati di football estero, l'occasione di emigrare restando nel tinello di casa o trasferendoci a Chiasso, per assistere, in qualche bar, alla diretta. La voce di Beppe ribadiva la sua perizia professionale.

Sapeva di football, avendolo giocato. Sul prato dell'Olimpico di Roma, indossando l'impermeabile, il mocassino e l'eleganza di sempre, esibì un cross perfetto, da fermo, per Raimondo Ponte, stupito per il gesto e la precisione balistica, come gli altri calciatori svizzeri che preparavano l'amichevole contro gli azzurri campioni del mondo. Un paio di altri episodi, con la testimonianza di Paolo Taveggia, ribadiscono come la radio, la televisione e il giornalismo di allora, fossero non soltanto una avventura da pionieri ma un territorio di fantasia e di creatività. Beppe, ultrasettantenne, incominciò ad accusare qualche problema alla vista. Fininvest aveva preso in esclusiva i diritti delle tre amichevoli del Brasile nel giugno dell'84. La prima si giocò al Maracanà di Rio contro l'Inghilterra. La postazione radiotv era ad altezza empirea, Beppe non riusciva a decifrare i numeri dei calciatori, lo aiutò l'occhio di falco, non quello tecnologico contemporaneo, ma Paolo Taveggia, il quale, come si usava tra i banchi di scuola durante l'interrogazione di matematica o simili, suggeriva con le dita delle mani il numero di maglia del calciatore in possesso di sfera. Albertini non si scompose mai, la cronaca fu perfetta, i gol di John Barnes e di Mark Hateley umiliarono i brasiliani. L'ultima partita del torneo amichevole, si giocò allo stadio Couto Pereira di Curitiba, impianto mai raggiunto dalla coppia, causa traffico infernale. Beppe colse la palla, anzi la sfera al balzo, si sistemò nella stanza di albergo, accese il televisore, si collegò via telefono e, davanti all'apparecchio, nella stanza dell'hotel, come a bordo della carrozza nel 43, Albertini Giuseppe raccontò la vittoria del Brasile sulla Celeste.

Fu Giuseppe Albertini da Roma, presente davvero in tribuna a Tokyo, l'otto dicembre dell'anno successivo, a celebrare su Canale 5 il gol decisivo su rigore di Michel Platini che consegnò la coppa Intercontinentale alla Juventus, nella finale contro l'Argentinos Juniors. Al mondiale messicano venne colto, di notte, da crampi feroci al ventre. Lo soccorse Enrico Carpani, oggi direttore della Rsi, che raccolse in una borsa il necessario per il ricovero: mutande, canottiere e una camicia da notte, ricamata di blu in cachemire: «No, quella no, non credo si adatti alle circostanze, meglio quella bianca», quasi rantolando disse Pepi.

L'ultima notizia arrivò nel luglio dell'Ottantotto da Lugano: era morto un maestro, un signore. Un amico. Il nostro Giuseppe Beppe Pepi Albertini.

(5. Continua)

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