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Bird, il fenomeno che ha portato il basket nel mito

Inseparabile da Magic Johnson nei duelli in Nba, ma anche nel più grande dei Dream Team

Oscar Eleni

Benedetto il giorno in cui lo abbiamo visto per la prima volta su un campo di basket. Per costruire nella nostra mente il campione ideale, il più bravo di sempre, avevamo scelto proprio Larry Bird, il vitruviano dell'Indiana, nato sessant'anni fa a West Baden Springs, un paese dove anche oggi ci sono meno di 600 persone, cresciuto a French Lick, culle piccine per chi è diventato re. Ci ha stregato, peggio per chi è venuto dopo di lui, anche se immenso come un Michael Jordan o, adesso, Lebron James, peggio per tutti i campioni dello sport che abbiamo frequentato fra mondiali e Olimpiadi, se per giudicarli partivamo sempre da questo campione immenso che oggi compie gli anni e forse non riconosce più il gioco dove è stato leggenda.

Lo è diventato scappando dalla pazza folla, rinunciando alla famosa università dell'Indiana dove c'era troppa gente per lui che si definiva un contadinotto di French Lick. Preferì guidare i camion per la raccolta delle immondizie fino a quando lo convinsero che non poteva rinunciare al suo talento e lo fecero iscrivere ad Indiana State dove divenne il più famoso dei Sycomores portati alla finale Ncaa del 1979 quando a 23 anni, nella partita più vista in TV, trovò per la prima volta sulla sua strada Magic Johnson, il principe di Michigan State. Perse. Ma fu questa meravigliosa coppia a risvegliare la Nba, perché il destino volle che vestissero maglie gloriose in mondi tanto diversi: Bird ai Boston Celtics, Magic Johnson come inventore del gioco per i Los Angeles Lakers.

Rivali, amici. Splendidi. Larry e il suo avversario amato e odiato: «la prima cosa che facevo ogni mattina era andare a vedere i tabellini per sapere cosa aveva fatto Magic. Non riuscivo a pensare ad altro». Erano il fuoco per un altare che li ha scelti come eroi per sempre. Bird e i suoi tre titoli Nba del 1981, 1984 e 1986, 34.443 minuti in campo, 21.791 punti tutti con la maglia dei Celtics dove ha giocato 20 anni cominciando nel 1979, canestri realizzati anche con la schiena dolorante o una mano in pezzi, come nell'86, a Portland, quando ne fece 47 punti con la sola sinistra utilizzabile.

Ce lo ricordiamo tutti nel suo giorno di addio, alle Olimpiadi dorate di Barcellona nel 1992, quando andava in panchina, i grandissimi della prima vera squadra dei sogni statunitensi, facevano spazio per lasciarlo sdraiare dando sollievo alla schiena. Il primo ad aiutarlo era sempre Magic Johnson perché quei due, riuniti in Nazionale e in un famoso spot per la vendita di scarpe sportive, erano fratelli anche quando si insultavano sul campo: «Sono cresciuto - dice Bird - giocando con i miei fratelli maggiori ed era naturale prendersi in giro, sfottere gli altri durante il gioco, mi veniva naturale. Con Magic era sempre diverso, ma la verità è che noi due non abbiamo mai guardato al colore della pelle. Era come se fossimo daltonici».

Non era bello, ma era divino. Lo è stato anche come guida Nba per i Pacers dell'Indiana, allenatore dell'anno nella stagione '97-98, tre finali per la Conferenza dell'Est, finalista per l'anello nel 2000 battuto, pensate un po', dai suoi rivali di sempre, i Lakers. Fantasioso sagittario nato sotto il segno del fuoco, tiratore, 3 gare fra le stelle vinte nel tiro da 3, rimbalzista, grande difensore e dispensatore di passaggi vincenti, sensibile, eccentrico, magico.

E' stato il basket quando era davvero un gioco di squadra.

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