Calcio

"Il boom del Bologna figlio di una mentalità a... stelle e strisce"

Da bomber ha chiuso la carriera negli Usa, ora è il ds rossoblù: "Club modello d'organizzazione"

"Il boom del Bologna figlio di una mentalità a... stelle e strisce"

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Il suo cammino da dirigente è partito da Bologna, con le luci della sera di una carriera che proprio lì sotto Garisenda e Torre degli Asinelli era finita. Almeno in Italia, dove resta a ridosso dei top 30 tra i marcatori più prolifici di sempre, al pari di Christian Vieri, «Veleno» Lorenzi e Paolino Pulici con 142 reti. Ma lui, Marco Di Vaio, la carriera ha poi deciso di chiuderla negli Usa. Lì dove, nell'anno dell'Europeo, la Nazionale di Spalletti giocherà contro Venezuela ed Ecuador i primi due impegni del 2024, a marzo. La Nazionale femminile degli States è già la più titolata al mondo e la crescita del soccer passa anche dai quattro americani in campo dal primo minuto in Milan-Juve di fine ottobre: Pulisic, Musah, McKennie e Weah, con il ct Berhalter in tribuna a San Siro. Marco Di Vaio, direttore sportivo del Bologna, il calcio a stelle strisce lo conosce bene. E c'è anche il suo tocco americano nel successo del Bologna dei miracoli. Quello che l'ultimo terzo di campionato lo affronta dal quarto posto che ha il sapore di Champions.

Di Vaio, una stagione così positiva a Bologna l'avevate prevista o ne siete stati sorpresi?

«Il mister lo scorso anno ha fatto un buon lavoro: ha avuto il merito di migliorare i giocatori e portare la squadra a un livello più alto. In estate poi la società ha completato la rosa per fare una squadra consona alle sue idee. C'erano le basi per fare un buon lavoro».

Lei ha varcato l'oceano per chiudere la carriera ai Montreal Impact, esattamente 20 anni fa. Quanto è diverso il calcio di allora da quello attuale?

«Mi colpì la grandissima organizzazione, la visione della Lega e gli obiettivi precisi: farlo diventare un calcio di riferimento internazionale, attraverso obiettivi definiti e organizzazione chiara. Sono stati fatti passi da gigante, Lega e club lavorano insieme».

Per arrivare dove?

«Essere competitor del calcio europeo e sudamericano. Si fanno molti investimenti e i club avvertono quasi l'obbligo di avere strutture pronte e stadi nuovi. Che sono quasi sempre pieni».

La distanza con ciò che avviene a queste latitudini è così grande?

«Abbastanza. Hanno meno problemi nell'investire nelle facilities, che sono molto più avanti delle nostre. C'è meno burocrazia che in Europa, dove i grandi investimenti difficilmente sono solo privati».

I Montreal, matrice canadese e lega statunitense: emblema di una concezione meno campanilistica e più imprenditoriale?

«Il nostro presidente Joey Saputo ce lo spiega spesso e io stesso me ne resi conto in Usa: la Lega pensa per tutti e divide per tutti, con lo stesso peso e non con percentuali diverse. Tutti orientati a far crescere il calcio».

Sembrerebbe quai uno spot per la Superlega

«No, il nostro calcio arriva da un percorso diverso. Lì si può fare, ma il contesto americano è in controtendenza rispetto al resto del mondo. Non avere retrocessioni, per loro è un vantaggio negli investimenti. Ma a titolo personale, io non credo la Superlega possa portare qualcosa di buono per i nostri club».

Le multiproprietà internazionali proprio come quella di Bologna e Montreal - sono il futuro del calcio?

«Credo sia una forma di business intelligente, anche per far ruotare i giocatori. Li puoi formare con la stessa metodologia e farli crescere in contesti diversi. Anche perché da noi sembra difficile sviluppare le seconde squadre».

Ok gli investimenti, ma non si corre il rischio di far passare il messaggio che nel calcio basta investire economicamente per avere successo? A Bologna gli investimenti ci sono stati, ma si sottolinea tanto la programmazione. Cos'è prioritario?

«Investire significa farlo sia su giovani talenti che nelle infrastrutture. Bisogna avere rispetto del luogo, far capire ai tifosi la direzione. Il nostro è un calcio molto radicato, ma con le nuove proprietà straniere andiamo nella direzione di un'internalizzazione a cui tutti si devono abituare».

Quanto è stata semplicistica la contrapposizione tra il calcio degli algoritmi e quello delle bandiere?

«Senza fare alcun riferimento: io credo che si possa sviluppare un lavoro che comprenda le diverse anime. Non solo dati e non solo visione live o video. Si possono miscelare più competenze».

In Usa si giocheranno i prossimi Mondiali 2026, 30 anni fa furono quelli dell'Italia ko in finale ai rigori. Perché il calcio cresce negli Usa e in Cina è imploso? E a chi assomiglia l'Arabia?

«In certi luoghi mi pare ci sia una visione momentanea, di chi governa e che può stancarsi da un momento all'altro e può chiudere gli investimenti. In Usa parliamo invece di un movimento, con tante persone coinvolte.

Le basi sono diverse e la vision pure».

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