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Brera, l'Arcimatto che portò il "fòlber" nella letteratura

La sua rubrica sul "Guerino" valeva un testo scolastico Bibbia del calcio e stile inimitabile, tra whisky e mangiate

Brera, l'Arcimatto che portò il "fòlber" nella letteratura

Venticinque anni fa. Venticinque anni dopo. Nel mezzo: l'assenza che significa davvero senza. Senza Brera. Prima e dopo, che cosa è stato lo sport, meglio, il calcio, anzi il fòlber, come scriveva lui? Lepoldo Sofisti, redattore capo de il Giornale Nuovo, con le gote imporporate dalla tensione (ehm), sollevò la cornetta del telefono e chiamò Indro Montanelli, in quel fine settimana di agosto vacanziero a Cortina. Sofisti prese a leggere, scuotendo il capo di bianchi capelli e arrossendo ancor di più, occhiello, titolo e sommario dettati da Gianni Brera per la morte di Giuseppe Meazza: «Sbocciato in Lombardia dal confuso (e piuttosto malconcio) etnos dei poveri»

«Peppìn Meazza era il fòlber»

«Aveva le spalle cadenti e le ginocchia vaccine, ma gli dormicchiava dentro la felina arguzia del giocoliere che improvvisamente schiattava lasciando di stucco avversari e pubblico - Con lui, il calcio italiano ha superato la fase della rozzezza provinciale per salire a livello europeo - Ai mondiali 1938, rivinti dall'Italia, è stato definito un grand peintre du football»

Sento ancora l'eco del borbottio del Vecchio, da Cortina d'Ampezzo. Al Direttore quella roba lì era davvero difficile da ingoiare ma Brera era quello e quello sarebbe stato. Fu breve, purtroppo, la sua avventura al Giornale Nuovo, avvelenata per un menabò che non mise in risalto, anzi la dirottò di fianco a un commento tecnico e tattico, la sua corrispondenza parigina di Francia-Italia. Pilade Del Buono cercò di ammorbidire le paturnie, inutilmente purtroppo. Furono, tuttavia, anni fertili, vivi, non come quelli gloriosi de Il Giorno e poi di Repubblica e prima ancora della Gazzetta. Aveva provato anche con la politica, nel Psi. Una sera a Rozzano, durante un comizio, fece tre promesse agli elettori: «La prima cosa sarà di dotare l'Italia di impianti sportivi. La seconda di riaprire i bordelli. La terza di rispedire al Sud i meridionali!». L'ultima promessa provocò la reazione di un lucano, socialista e trapiantato in Padania: «Perché mi vuole cacciare?». Brera andò in corner: «Tu rimani, sei l'eccezione che conferma la regola». Evitò il Parlamento, per fortuna dei lettori.

Passare i suoi pezzi, leggendoli come un testo sacro, odorosi di tabacco, di nazionali superfiltro e di pipa e di sigari, questi tenuti, insieme con pillolame vario, dentro la borsa tattica di pelle di ippopotamo, dettare ai dimafoni quelle cartelle, con piccole correzioni, sottolineate con un pennarello di colore verde, non era un sacrificio noioso ma il piacere di scoprire, ogni volta, il nuovo, l'idea, la parola. La bottiglia di whisky stava come una candela e come quella andava spegnendosi mentre i tasti dell'Olivetti erano un tambureggiare allegro e deciso. Mai ho visto Giovanni ubriaco eppure lo vidi bere e bere, la corazza del parà e del figlio della zolla, sopportava qualunque attacco. Scriveva di atletica e di ciclismo e di boxe e di cucina e di tutto, dunque, con la stessa arte, accompagnata da una lingua che fu sua e che alcuni temerari hanno provato a emulare, finendo nel ridicolo del mimo ignorante.

Alle dieci del mattino, ma era, per me, l'alba, con l'autista del Giornale, passammo a prenderlo per raggiungere Linate. Si partiva per Parigi. «Leone, ven sü per un tirùn». Considerata l'ora, l'alcool dopo il cappuccino rappresentava una sfida persa. Non era ancora il tempo dell'etilometro ma il traffico milanese e il rischio di arrivare in ritardo ci aiutarono, Brera scese con una smorfia di delusione, forse di compassione. A bordo dell'aereo, con il Johnny Walker presente, si parlò di Francia, dei francesi, di Platini e di De Gaulle. Ascoltavi in silenzio, sempre. La sera parigina fu lunga, alla ricerca di un ristorante. Fummo stoppati, Nino Petrone, Gianni Mura, Jean-Michel Gardair, professore di letteratura italiana alla Sorbona, breriano di spirito e di corpo, infine io, davanti a una insegna che raffigurava un salmone, meglio uno storione. Trattavasi di un tragico ristorante russo, L'Esturgeon, Brera sbottò con una imprecazione irriferibile seguita da: «mio padre ero uno storione e, dunque, qui ci fermiamo». Scendemmo scale improbabili, locale deserto, un pianista abbandonato a se stesso, immediatamente silenziato, con obolo, dal figlio dello storione, presenza di una cameriera procace che venne avvolta o travolta da complimenti tipicamente nostrani. Il fatto fu che la signora fosse nostrana di razza, al momento de l'addition si scosse, replicò in lingua madre, ma con garbo, a quel gruppetto di ritals con un capoguida sfacciato. Brera completò di mancia generosa, come sempre, il conto.

Non c'era momento, allo stadio per dire, nel quale Giovanni non fosse attento al gioco; essendogli di supporto non potevi perdere un amen: chi l'ha passata? E, a lui, chi altro? Era un suo test per vedere se il vicino di banco seguisse l'incontro con uguale attenzione. Quando un difensore sbagliava un tocco facile, Brera si sollevava appena dal sediolino in tribuna stampa e gli partiva un Codognooo!, per dare la dimensione tecnica paesana del brocco; il resto della tribù, sorrideva non potendo applaudire. Ricordo una sera, nella sua dimora a Bosisio Parini, verso il lago di Pusiano, e l'immagine di una sontuosa coppa piacentina estratta, come fosse il ritrovamento di una pietra preziosa, da una botte di vino. Parlava di Aristotele e del Carnaroli, in quanto riso, con la stessa facilità di una rimessa da fallo laterale. Era il modo di condividere la sua vita affollata che, ogni tanto, abbisognava di silenzio. Così, ad esempio, nei pomeriggi di canicola, poteva essere Napoli o la sciroccosa macaja di Genova, si coricava, appoggiando il fazzoletto bianco, spiegato sugli occhi. E allora mi tornava alla mente il Guerin Sportivo, quello dai fogli enormi, lo tenevo nascosto sotto il banco di scuola, essendo, al tempo, severamente proibito sfogliare tutto ciò che non fosse il Campanini Carboni o il Rocci. Utili comunque, perché, sul Guerino, nell'Arcimatto, Brera usava, accanto al suo gramelot, anche il latino e il greco.

Una notte di dicembre, tornava da una cena a Maleo, con gli amici, Vittorio Ronzoni e Pietro Mauri. Non c'era nemmeno la nebbia. Era il buio, prima delle fiamme. Era Codogno. Gianni Brera non si sollevò dal sedile della Ford Fiesta che andò a sbattere contro una Thema. Venticinque anni fa, venticinque anni dopo. Senza.

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