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La Cremonese d'acciaio sfida i tycoon stranieri

Nel football delle proprietà estere, il club del presidente Arvedi è un'"anomalia" Di successo

La Cremonese d'acciaio sfida i tycoon stranieri

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Vai a darle torto, a Lady Marian, sedotta dall'audacia di chi cerca di portar via ai ricchi per darne a chi ne ha meno. Nella Sherwood di Serie B, Robin Hood che ha il volto della Cremonese degli Arvedi (nella foto in basso il presidente il presidente, Giovanni Arvedi) , realtà solida come l'acciaio che lavora, di gran lungo difesa più ermetica del campionato con solo 20 gol subiti, Davide contro i Golia delle proprietà multimilionarie d'oltreconfine. Dal Parma capolista sotto il vessillo dell'americano Krause al Venezia di Niederauer, patrimonio da 1,33 miliardi e successore tra Penzo e Rialto di Joe Tacopina, avvocato personale di Trump e presidente Spal. Proprio il Venezia, secondo con un punto più della Cremonese, arriva dal 2-0 al Cittadella, fondato 50 anni fa dai Gabrielli, che hanno siderurgicamente temprato una realtà a costi ridotti, zero debiti e alta classifica. Magari non più tale dopo i 7 ko di fila, sebbene i granata rimangano in zona playoff, gli stessi da cui estromisero il Monza di Fininvest nel 2021. Quell'anno, 19 i milioni spesi dai brianzoli per tentare l'assalto alla A, 3 quelli dei padovani: nelle tasche di Enrico Baldini (tripletta ai biancorossi) finivano 40mila euro l'anno. A Cittadella, 20mila anime oltre il Brenta, domenica arriva il Pisa di Knaster, moscovita di passaporto americano. E all'americana di ciclismo assomiglia la cadetteria italiana, che spinge verso una A con fatturati in grado di lievitare del 70%.

Lo sa anche il Palermo dello sceicco emiratino Mansour, quello del Manchester City campione di tutto. Rosanero in piena corsa playoff nonostante il fresco ko interno con la Ternana e oggi in campo a Brescia per ricucire sui 5 punti dal secondo posto e dalla promozione diretta. Sì, perché il Venezia domenica va a Como, quarto e a -2 dai lagunari. Dopo lo 0-3 nel derby del Lario contro il Lecco (con tanto di sfottò social, «Lago di Lecco? Nessun risultato Google»), il Como punta alla A grazie al patrimonio da 45 miliardi degli indonesiani Hartono, attenti nel garantire visibilità al loro investimento e senza tentennamenti nell'esonerare Longo (virtualmente terzo) per dare la panchina a Fabregas (nella foto a destra), pur sprovvisto di patentino. Lo spagnolo aveva appena concluso la propria carriera da campione del mondo sul lungolago, poco distante dalle vetrine che gli Hartono avevano riempito di prodotti d'alta gamma per donna e una linea economica di fermacapelli, tazze e teli mare. Una bizzarra tournée estiva negli States di calcio a 7 (3 giocatori di prima squadra, 3 Primavera e 1 del femminile) utile per esportare il brand, poi l'avvistamento in tribuna di Billy Beane, il mister Moneyball dell'algoritmico approccio caro al Milan di RedBird. E i risultati, è il caso di dirlo, pagano. Così a Como sopperiscono anche alla mancata empatia con la piazza, quella invece propria invece degli Arvedi a Cremona. Secondi a punto dal Venezia grazie a una strategia tutta sponsor territoriali, programmazione e radicamento nei contesti culturali: dal museo del violino alle sedi universitarie.

Qualcosa affine alla sinergia con il territorio costruita dal Sudtirol, melting pot al sidro tra tifosi in lingua ladina, italiana e tedesca, giunto in cadetteria con un salary cup da 100mila euro l'anno e con gli ad di Forst, mele Marlene e Autostrada del Brennero nel cda. Perché la globalizzazione e la politica dell'apertura non sempre frutta e, anzi, a volte disperde risorse e identità.

Ne sa qualcosa a sue spese lo Spezia degli americani Platek, terz'ultimo dopo la retrocessione della scorsa primavera.

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