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Il dio dell'atletica finisce. Ma per terra

Bolt si stira nell'ultima frazione della 4x100 e la Gran Bretagna gli ruba la scena

Il dio dell'atletica finisce. Ma per terra

Il più grande di tutti i tempi finisce nel modo peggiore di sempre. A terra, stirato, con le mani sul viso e poi, aiutato, accompagnato, scortato zoppicante dai compagni della staffetta che manca tutto a causa sua: oro, argento, bronzo, podio, piazzamento. Dovevano essere quindici medaglie mondiali e record e, chissà, magari anche il ventesimo oro tra Giochi e campionati, invece rimangono ferme mestamente a quattordici. Siamo alla caduta degli dei, del dio della corsa. E ora resta solo tristezza. Anche perché stavolta non ci sono gli applausi enormi del pubblico a scaldarne, oltre alla delusione, il dolore. Quegli applausi, quel pubblico, quell'amore adesso sono tutti per il quartetto britannico che ha appena vinto l'oro, con gli dei, i giamaicani che non perdevano la 4x100 da prima di Pechino 2008, portati qui nella polvere dal loro dio.

L'ultimo Bolt resterà per sempre quello con la faccia a terra e i piedi scalzi e questo non è giusto, non è il finale che un dio della corsa avrebbe meritato. Anche se i dubbi su di lui prima e durante questa edizione dei mondiali avevano continuato ad alimentarsi. Il dubbio che come tutti i grandi e immensi campioni non avesse trovato la forza e il coraggio di lasciare da vincente assoluto dopo Rio e i Giochi colorati da altri tre ori. Per questo, forse, adesso, nello sconforto, è bello cullarsi in ben altro dubbio: che avesse invece trovato forza e coraggio uguali e inversi, cioè quelli necessari per non ritirarsi in un momento magico come quello brasiliano e onorare fino all'ultimo, nonostante sapesse di essere ben lontano dalla forma ottimale, il suo popolo di tifosi fedeli andando ad afferrare la medaglia.

Sì, illudiamoci, è andata proprio così. Forse è a questo a cui dobbiamo affidarci per non pensare a un addio crepuscolare e triste con i giamaicani neppure arrivati nonostante la commovente scena dei tre compagni, Mcleod, Forte e Blake, che accompagnano il loro dio scalzo fino a tagliare idealmente il traguardo mancato. Festeggiano gli inglesi, s'arrabbia l'America seconda dove a vincere, negli atteggiamenti, è ancora reietto Gatlin che va subito a confortare Bolt, e non stanno più nella felicità i giapponesi incredibilmente a podio.

I dubbi finiscono qui. Perché questo mondiale consegna invece una certezza: non è più tempo per i miti, non c'è neppure riconoscenza, neppure viene dato spazio ai futuri eredi. Van Niekerk che doveva essere il nuovo Bolt ha fallito e se ne torna a casa triste nonostante un oro e un argento e persino l'altro re predestinato di questa edizione, l'inglese Mo Farah, un'ora e mezza prima, nei 5000, è stato costretto a salutare l'atletica e il suo pubblico senza l'oro che aveva sognato. Lui ha abbracciato i figli a bordo pista, Usain la polvere per terra. La differenza c'è.

E resta.

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