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Donne e sport, non c'è parità E non è questione di rispetto

I mezzofondisti presentati così dopo una gara femminile: «E adesso gli atleti veri». Ma è l'audience ad essere sessista

Donne e sport, non c'è parità E non è questione di rispetto

«Ora arriva la gara clou dove vedremo gareggiare i veri atleti», figuratevi come questa frase, pronunciata da Sergio Lai, presidente dell'atletica sarda, sia risuonata nella mente e nel cuore di Giulia Andreozzi, che aveva appena tagliato il traguardo della corsa campestre, a Villacidro. «Ma come si permette di parlare così questo signore?», s'è detta la 34enne fondista cagliaritana, di professione avvocato, che ha reagito con un post di fuoco su Facebook: «Ci sono cose che nel 2017 non si dovrebbero sentire. Specialmente da chi ricopre cariche pubbliche di un certo rilievo... Prendo atto che per lui le donne che avevano appena finito di gareggiare non sarebbero vere atlete... Sono affermazioni gravi e inaccettabili, di cui si dovrebbe essere chiamati a rendere conto». Come darle torto? La fatica in qualsiasi sport, ma soprattutto in una campestre, è analoga per tutti i partecipanti: il sesso non conta. A rafforzare la moltitudine di adesioni, è intervenuta Laura Coccia, parlamentare pd, scagliandosi contro la cultura maschilista nello sport e lanciando un appello bipartisan per il varo di una legge che riconosca formalmente il professionismo delle atlete. L'appello ci può stare, ma sa di demagogia al pensiero di quante, e di quale valore, siano state le medaglie al femminile degli ultimi Giochi di Rio.

«Ma io non intendevo parlare male delle donne nell'atletica, ne ho 4 su 7 nel consiglio regionale», s'è difeso il dirigente della Fidal che ha aggiunto: «Volevo solo enfatizzare la gara maschile per la presenza di Said Boudalia, vincitore della maratona di Boston. Chi mi conosce sa benissimo cosa volevo dire, è un equivoco». Beh. Un equivoco proprio no. Quella frase, Lai, poteva risparmiarsela.

L'episodio ci porta a un altro aspetto dello sport che, al di là del fatto agonistico, vive di importanti riflessi mediatici, a mezzo fra popolarità, passione e business. Su un aspetto il presidente della Fidal sarda ha ragione: non tutti gli sport, non tutte le gare, non tutti gli atleti e le atlete sono uguali. Basta scorrere le prime pagine di ieri, equamente divise fra il trionfo di Federer agli Australian Open e le faccende del pallone italico. Ci sarà pure un motivo se le tv spendono l'85% del budget per il calcio. E' la legge della domanda e dell'offerta.

In controtendenza, gli organizzatori dei grandi slam pagano allo stesso modo uomini e donne: 2,6 milioni di euro ai vincitori, 1,3 ai finalisti, 570mila ai semifinalisti e giù a scalare. Ma la finale Federer-Nadal ha raccolto numeri da capogiro su Eurosport: 594mila spettatori che sono diventati 850mila nell'ultimo set con picchi di oltre un milione e centomila. Per tutta la mattina Eurosport è stato il quarto canale nazionale, il primo sulla piattaforma Sky. Il video dell'emittente su Fb ha sfiorato i 6 milioni di visualizzazioni con oltre 9 milioni di post. In campo maschile ci sono stati incontri epici: dall'eliminazione di Djokovic e Murray alle due partite vinte al quinto set dai finalisti. Sull'altro versante poco o niente. La finale femminile fra le Williams s'è attestata su 100mila appassionati. Ma la paga è uguale, e questa cosa sarebbe, cultura femminista?

A proposito di impatto emotivo e mediatico, tutti quanti sappiamo che Bolt ha vinto 100 e 200 alle Olimpiadi. Ma chi si ricorda dell'atleta che ha fatto altrettanto in campo femminile? Per la cronaca la giamaicana Elaine Thompson. Eppure entrambi si sono sacrificati allo stesso modo per arrivare al podio, forse più la Thompson che non ha il talento di Bolt.

Occhio al qualunquismo.

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