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Famiglia nella famiglia La favola impossibile

Una storia d’amore rossonero: Cesare e la scrivania, il calcio pulito di Paolo, e ora Daniel già in partita

Famiglia nella famiglia La favola impossibile

«I n 23 anni di carriera non si è mai allontanato da un senso della morale, del dovere, della fedeltà e dell’etica che ne fanno una delle icone del calcio». Non l’ha detto un simpatico suddito di casa ma l’Equipe, in genere definita la prestigiosa Equipe, a commento della sua presenza nella squadra del decennio stilata dal Sun nel 2009, e scriveva di Paolo, quarto di sei figli di Cesare e padre del secondogenito Daniel, per ora l’ultima traccia della dinastia Maldini sui campi di calcio. Passaporto italo-venezuelano, il calciatore più giovane ad aver giocato dal primo minuto una gara di International Champions Cup. Sarà poco ma è subito un altro record di famiglia che si infila a righe rossonere in una striscia impossibile. Hanno vinto anche quello che non era in palio. E hanno fatto tutto questo a modo loro. A Daniel hanno già messo il timbro, tecnica, eleganza, personalità, in più fa gol perché lui non gioca dietro. Vediamo, troppo presto, per ora gira solo il video dell’abbraccio di mamma Adriana in attesa del suo sbarco a Malpensa dopo la tournèe in America. I tifosi fingono di non darci peso ma poi già spillano le pagine degli sportivi per vedere se ci sono notizie sul bambino. Ed è probabile che Paolo dica che non gli dà consigli, magari è vero, la strada devi impararla da solo, deve attraversare il bosco e incontrare il lupo cattivo, non è stato facile per nessuno, nemmeno per lui. Poi magari passi per uno che sa mascherare la propria emotività come alla vigilia della finale di Champions con la Juventus: . Mai visto Paolo litigare in campo con qualcuno? Si? Si, una volta ha preso Chiellini per il collo nel finale di un Milan-Juventus in piena area bianconera, disse che gli aveva mancato di rispetto. Lo juventino un giorno dirà: «Paolo era il mio idolo, desideravo la sua maglia, sognavo una carriera come la sua e sono rimasto profondamente deluso quando la sera del suo addio a San Siro ho sentito la sua curva che lo fischiava». Già, perché? Perché finirla così, con uno che ha indossato solo quella maglia, ha sempre parlato poco e con garbo, in campo, nello spogliatoio e fuori. Un Maldini che ha vinto tutto in rossonero, e in azzurro due mondiali strameritati a Italia90 e a Pasadena persi per tanto cosi, il miglior difensore in circolazione nel mondo. Bisognerebbe entrare nel ginepraio da manicomio che spesso invade il tifo, Paolo non ha mai condiviso certi comportamenti e quando gli hanno chiesto spiegazioni le ha date: «Mi sono sempre rifiutato di partecipare alle riunioni e alla feste degli ultrà e ho sempre criticato gli atteggiamenti violenti». Dopo la sconfitta con il Liverpool in finale a Istanbul, i capi della Sud gli chiesero spiegazioni, lui si era rifiutato e non aveva nascosto il giudizio su di loro. Giusto o sbagliato è stato un segnale forte, prodromo a fatti più recenti, mettersi di traverso alle curve non è come entrare in chiesa senza togliersi il cappello. C’erano settantamila persone che applaudivano e la Sud aveva tirato fuori un drappo sulle ringhiere del Meazza che non diceva niente di buono: «A distanza di tempo ho capito che quella sera ho marcato una linea ancora più netta fra me e quel tipo di calcio, non penso che quello sarà il futuro dello sport». Magari Paolo un giorno queste cose le spiegherà a Daniel perché i figli sono curiosi, così come una sera Paolino avrà chiesto a suo padre come è andata con il signor Rocco. E Cesare glielo racconterà: «Squilla il telefono e dall’altra parte mi sento dire: Cesare, come xe li? Mah... forse che lì non ghe la fazo, no son capace li». E si faranno una risata. Il paron, anzi il signor Rocco, lo aveva chiamato subito appena i dirigenti del Milan gli avevano affidata la panchina. E lui mezzo sloveno e mezzo italiano, il signor Rocco lo conosceva bene, lo aveva messo in campo la prima volta a Torino con la Triestina contro la Juventus, 3-0 per loro, e non era neanche stata una scelta tecnica. In quattro si erano messi in sciopero perché dicevano di non aver ricevuto lo stipendio e allora Nereo Rocco mise dentro dal primo minuto quattro ragazzi, uno era Cesare: «Mulo, toca a ti». Ma lo ha sempre chiamato signor Rocco, perché dalle sue parti il rispetto è qualcosa che non si deve mai dimenticare. Con Cesare Maldini si rischia di precipitare nella retorica, immaginario, la maldinata era puro calcio metafisico, dopo una sconfitta Rocco lo prendeva sottobraccio e si facevano un paio di chilometri in silenzio, accadeva di rado perché quel Milan vinceva quasi sempre anche se non è successo subito. Radici profonde, una famiglia non nasce al mattino, parole misurate, sguardi, gesti, si cresce all’improvviso, si diventa uomini a colpi di fucile. Milanista? Si, rossonero dentro, ma poi diverso quando ti riconoscono anche i nemici e fluttui sopra il tifo. Quando ha chiuso col calcio non si perdeva una partita del Milan, mai, tranne quando arrivavano a trovarlo i nipotini, allora rinunciava e rimaneva in casa con loro a guardare i cartoni animati. «Signor Rocco venga qui, è bellissimo», gli aveva risposto e il Paron si era fidato. L’Italia stava tornando, la guerra quasi un ricordo, boom economico, qualche squadra giocava ancora con il Metodo, 2-3-2-3, il doppio W di Pozzo leggermente riveduto, Cesare dietro potevi metterlo dove volevi, alto, educato, elegante, anzi troppo elegante per fare il terzino, modesto, anzi troppo modesto per farsi largo in quel calcio che stava diventando la nuova religione degli italiani, lui di qui, Armando Picchi di la, anni Sessanta, dominava Milano. Wembley e la prima Coppa dei campioni in Italia che poneva fine al dominio iberico, scudetti, ct dell’Under 21 tre volte consecutivamente campioni d’Europa, ct della nazionale fuori dal mondiale ai rigori contro i padroni di casa francesi, poi ct del Paraguay, sempre composto, con quel gesto a sistemarsi i capelli. Qualcuno per spiegare cosa fosse, ha raccontato di quella mattina che entrando come ogni giorno nel suo ufficio ci trovò un altro seduto alla sua scrivania. Non chiese chi fosse e cosa ci facesse lì, uscì in silenzio e chiuse dietro a se per sempre la porta del suo Milan.

Vero, leggenda, teatro, ma se chiedi di questa storia a chi lo ha conosciuto, sorride, e gira la testa per guardare da un’altra parte.

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