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Gatlin guastafeste d'oro. Usain ci resta di bronzo

Il fenomeno chiude con una sconfitta, battuto dall'ex dopato americano che gela lo stadio

Gatlin guastafeste d'oro. Usain ci resta di bronzo

Dal nostro inviato a Londra

Beati gli ultimi, perché saranno i primi. O beati i primi, perché saranno gli ultimi. È privilegio dei grandi confondere persino le sacre scritture e regalare gloria ai reietti. Usain Bolt, per esempio. Nel giorno del suo ultimo cento ha reso eterno il due volte dopato Justin Gatlin. Campione del mondo il 35enne americano dalla fedina macchiata: 9''92 per lui, davanti al giovane connazionale Christian Coleman, 9''94, e poi solo terzo Usain, 9''95. Scattato male, sorpreso, incapace stavolta di mettere quel turbo che l'aveva sempre sparato verso l'oro, «mi ha ucciso la partenza», confesserà. Però lo stadio è suo, le lacrime sono invece di Gatlin, il reietto redento proprio dal grande rivale che lo applaude cercando di far tacere uno stadio inglese per la prima volta antisportivo. C'è un limite a tutto. Anche con i reietti. «Mi ha ispirato Usain, mi ha ispirato lui a non mollare e tornare...», dirà Justin.

Beati gli ultimi, perché saranno i primi. Usain Bolt, per esempio, Valentino Rossi, per esempio. Roger Federer, per esempio. Immensi primi il cui ultimo affondo viene e verrà celebrato come una liturgia indipendente dal risultato. Poco importa infatti che l'ultimo cento mondiale di Bolt sia stato una cocente sconfitta. La domanda che pulsa è infatti un'altra: avrebbe cambiato qualcosa la sua vittoria? No. Perché è privilegio dei grandi confondere e rendere uguali vittoria e insuccesso, e quel privilegio Usain Bolt se l'è preso tutto. Ed è privilegio di poche discipline ritrovarsi in casa un primo talmente primo da riuscire a trasformare la sua ultima gara non in un addio perché sarebbe triste, non in una vittoria o una sconfitta perché sarebbe banale, bensì nella festa stessa dello sport. Che se poi è sport gravemente malato come l'atletica, da festa diventa un trapianto di speranza. E in fondo la vittoria del reietto Gatlin racconta anche questo.

È una messa, una celebrazione che ha avuto il suo primo momento sacro nella terza semifinale, in sesta corsia, occhi puntati tutti su Bolt, da dieci anni sacerdote di questo rito laico e sfrontato. Ovazione, e poi quei nove secondi e 98 centesimi che raccontano della sua immutata voglia di velocità ma anche di un fottuto centesimo in meno, staccato dal giovane emergente americano in batteria con lui: Christian Coleman. Prima sconfitta di Bolt dal Golden Gala di Roma 2013, quasi un'altra epoca. E un segnale per la finale.

Cinque anni fa, durante la cerimonia di apertura dei Giochi, questo cielo aveva visto una finta Regina Elisabetta paracadutata sulla pista. Era stata una scena divertente e pacchiana. Ieri notte sotto lo stesso cielo si è tenuta una liturgia che non ha avuto nulla di sgraziato e circense. Un rito iniziato con il doppio segno della croce a cui Usain ci ha abituati, solo che stavolta è sembrato un doppio segno diverso, non la preghiera veloce ai nove secondi che sarebbero stati ma alla vita che sarà. E anche il suo pubblico l'ha vissuto alla stessa maniera. Con sacralità. Perché è umano, è inevitabile, è nelle cose: puoi essere assuefatto a un personaggio, conoscerne tutti i gesti, avere tutti i calli del mondo ma quando calpesti la pungente verità di un'ultima volta, allora anche i soliti gesti e le abitudini diventano preziose e inesplorate sensazioni da respirare, mandare a memoria e collezionare.

Gli occhi del pubblico dicevano questo. Gli occhi del Lampo hanno detto questo. Per cui qui, ora, adesso, anche solo pensare al risultato, a chi abbia vinto o perso o fatto meglio o peggio, ha il sapore quasi blasfemo di una bestemmia urlata durante la messa. È vero, basta alzare lo sguardo: sugli schermi sta scritto Gatlin primo. Però qui si avverte che non è solo lo stadio ad applaudire Usain, sono i muri dell'impianto, sono le ossa della gente. È vero, così si è ritirato da sconfitto, perché gli ori mondiali restano tre in coabitazione con Maurice Greene e l'indigesto Carl Lewis. Vero, se non fosse stato per il suicidio di sei anni fa ai campionati di Daegu, per quella falsa partenza, ora non si sarebbe neppure posto il problema. Però anche in questo sta la grandezza del campione. Quel giorno trovò la forza di sbagliare scegliendo l'unico che potesse batterlo: se stesso.

Ieri ha fatto lo stesso: scegliendo di redimere un reietto.

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