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Gatlin ko, ma batte i fischi a testa alta

L'americano sfida con la bandiera il pubblico brasiliano nel giro d'onore

Gatlin ko, ma batte i fischi a testa alta

RIO DE JANEIRO - C'è un uomo che nella notte di Rio cammina avvolto in qualcosa che sembra un mantello a stelle e strisce e non può essere Capitan America perché ha la pelle scura, non può esserlo perché questo è il Brasile e poi, diamine, i super eroi non si fischiano. Justin Gatlin nella notte dei 100 metri è l'uomo che ha perso ma non troppo. È l'uomo che in tutti coloro che vengono attratti dal più debole, il più brutto, il più isolato, il più reietto ha provocato un sentimento di umana compassione. Perché si è affacciato e lo stadio l'ha fischiato. Perché ha fatto un passo e lo stadio l'ha insultato. Perché si è preparato ai blocchi e la gente, brutta gente, l'ha riempito di offese. Perché ha corso e al fotofinish c'erano i buuu ad accoglierlo. Solo quelli.

Ha perso l'oro Justin, ma in fondo alzi la mano chi aveva mai pensato che potesse vincerlo contro il troppo forte, il troppo bravo, il troppo perfetto, il troppo simpatico, il troppo pulito, il troppo tutto Usain Bolt? Eppure, giudicando solo tempi alla mano e senza farsi inquinare i pensieri dal doping e le due condanne subite e scontate dal campione olimpico di Atene 2004 e bronzo di Londra 2012, fino a domenica notte era stato proprio lui il più veloce del 2016. Nove secondi e 80 il suo miglior crono stagionale, contro il 9''88 di Bolt che aveva relegato il sovrano giamaicano al quarto posto nella hit pre olimpica e davanti si era trovato anche il francese Jimmy Vicaut (9''86) e l'altro sprinter a stelle e strisce, Trayvon Bromell (9''84).

Per questo Gatlin ha perso. Perché forse avrebbe potuto farcela e invece nella notte cruciale si è scambiato i crono con il giamaicano. Durante l'anno aveva corso in 9''80 e Bolt ha vinto l'oro in 9''81; e lui ha conquistato l'argento in 9''89, quando il giamaicano fino a Rio non era andato sotto i 9''88. Ha perso perché nel peggior cento olimpico corso da Bolt (9''63 a Londra, 9''69 a Pechino), non ha saputo cogliere l'attimo. Fra l'altro, entrambi, poi, se la sono presa con il poco tempo tra semifinale e finale deciso per accontentare la NBC che aveva pagato a peso d'oro il prime time americano.

Però Justin ha comunque vinto anche un po'. Gatlin va infatti interpretato e spiegato. Non giustificato. Sembrerebbe impossibile farlo per via delle due condanne per doping. Però in un mondo che dall'inizio del secolo scorso ha sempre avuto i propri drogati in pista e in gara, talvolta campioni per lungo tempo osannati, in un mondo dove il dubbio e il punto interrogativo restano su tutti, compresi quelli fin qui immacolati, il diritto di sentirsi riabilitato se non redento va garantito. Ma a Gatlin è stato negato nel modo meno olimpico. "Mai vista una roba simile, è la prima volta che capita e quei fischi mi hanno davvero sorpreso. La gente è più voce che altro... Non sanno quanto la rivalità con Justin mi sproni a far meglio, è un gran ragazzo...". Questo ha detto Usain Bolt quando gli hanno chiesto dei buuu al rivale. "Credo nel rispetto verso tutti... Lo vorrei anche per me", le parole sussurrate da Gatlin.

Invece, fischi di uno stadio intero. Fischi pesanti e di pancia tanto s'avvertiva era grande il piacere, il gusto. Non era successo a Londra, è successo qui. Pubblico tamarro. Pubblico nascosto fa gli spalti come ci si nasconde nella rete per insultare gli altri. E se ha perso in pista, Justin ha stravinto un attimo dopo aver perso. Avvolgendosi nella bandiera americana. Cercando nel mantello improvvisato il super potere di fare anche lui, come Usain, quello stramaledetto giro di pista. E c'è riuscito. Giro lento. Giro camminato. Giro vicino alle transenne perché gli altri, tutti, potessero fischiargli forte addosso. E lui guardarli in faccia.

Uno a uno.

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