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Grappa, gol e sigarette: il bomber che dominava la provincia

Sgraziato come un bisonte, glaciale sotto porta: storia di un bomber operaio che ha sempre scelto la provincia

Dario Hubner con la maglia del Brescia
Dario Hubner con la maglia del Brescia

Tatanka, nell'antica lingua Sioux, vuol dire bisonte. Una bestia potente e sgraziata, di quelle che quando prendono a correre verso di te l'unica è formulare una sequenza di scongiuri chirurgici. E spesso non basta. Lui certo non ha origini indiane: il nonno è tedesco, la mamma istriana, di Muggia, provincia di Trieste. Quel cognome ruvido e insolito, Hubner, deriva da qui. Di nome invece fa Dario. Massimo frequentatore di aree di rigore altrui: 346 gol in 676 partite da professionista costituiscono un dato incontrovertibile. Altri posti dove ha amato intrattenersi: bar di provincia e tabaccherie, più o meno con la stessa cadenza con cui crivellava le porte avversarie. Sempre con quell'espressione caricaturale cucita in volto e la postura perennemente ricurva, come a dire "guarda che sbattimento", anche se poi ti fregava sempre.

Eppure da ragazzino sgasava tra le viuzze di Trieste su un furgoncino Fiat, per montare finestre in alluminio. Mentre avviti mica ci pensi che un giorno diventerai il capocannoniere della serie A al pari di David Trezeguet. O che te la vedrai con Ronaldo (il Fenomeno). Oppure, ancora, che il tuo partner d'attacco sarà Roberto Baggio. La sua forza silenziosa risiede proprio qui: affrontare la Serie A con lo stesso atteggiamento che adoperi nella vita. Non è proprio come montare finestre, d'accordo. Serve un supplemento di responsabilità. Però se la addenti senza farti assalire dal panico, magari ti viene giù meglio.

Escludiamo ogni processo beatificatorio: sotto quel garbuglio di riccioli inestricabili bolle una testa che non è immune dalla pressione esterna. L'antidoto per diluirla sono le sigarette, pompate avidamente nei polmoni prima di una partita, negli intervalli, a fine gara. Dario dice che non c'è nulla di male perché lo rilassano e poi, comunque, lui i gol li fa lo stesso. Però per fumare si chiude spesso in bagno. Un altro fedele alleato sono i grappini, che vanno giù come acqua di fonte. "Ma non li bevevo mica quando giocavo, non ero ubriaco in campo", specifica. Anestetici che all'apparenza non sembrano incrinare la sua confidenza con la porta, anche se non tutti la vedono allo stesso modo: "Senza grappa e sigarette sarebbe il più forte di tutti", diceva di lui l'ex presidente del Brescia Corioni.

Hubner però non ci sente. Capitano di una motonave che ama solcare rigagnoli di provincia invertendo destini avversi (leggasi "baratro della serie B"), sceglie accuratamente di non scegliere un certo tipo di vita. Squilla il telefono: il suo procuratore gli comunica che un munifico club della Premier League pretende i suoi servigi, in cambio di una lauta ricompensa. Lui ci pensa soltanto per una manciata di istanti, scruta sua moglie Rosa che lo contempla preoccupata dal divano e stringe le scapole: no, thanks. Ad un certo punto il Milan lo porta in tournée per una dozzina di giorni. Non se ne farà di nulla, ma resta l'unico momento in cui il suo matrimonio con la provincia italiana vacilla. Il sentimento reciproco è troppo potente. L'habitat ideale è Piacenza, soltanto 40 minuti di macchina da Crema, dove vivono i suoi affetti. Gli scudieri eletti Poggi, Di Francesco e Gautieri. Effusioni incontrollabili che sono la copia per nulla sgualcita dei rapporti totalizzanti con il Brescia (lì lo serve un certo Andrea Pirlo) prima e il Cesena, ancora in precedenza. Una filosofia che verrà acclamata da molti, risuonando anche nei versi di un pezzo di Calcutta: "Io certe volte dovrei fare come Dario Hubner e non lasciarti a casa a consumarti le unghie".

Oggi la vita non è cambiata poi troppo: un bar da gestire in provincia di Cremona, un orto che richiede cure frequenti e la pesca per sentirsi ancora uno sportivo. Forse, fino a qui, l'ha vissuta in modo irruento. Proprio come un bisonte che trotta verso l'unica direzione possibile, quella impressa nella sua genetica.

Chè le cose che contano, alla fine, ognuno le conosce da sé.

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