Londra 2012

L’eroina olimpica morta in mare Samia sognava di correre in Italia

Ai Giochi di Pechino aveva portato la bandiera della Somalia. Minacciata dagli integralisti, è fuggita e ha tentato la traversata

L’eroina olimpica morta in mare Samia sognava di correre in Italia

Sono trentadue. Sono secondi. Sono la commovente metafora di una vita che non c’è più.Lei si chiamava,si chiama, si chiamerà per sempre Samia, ragazza sim­bolo, minuta e ostinata, giovane somala dai lineamenti aggraziati regalo di quel popolo bello quanto sfortunato e crudele con se stes­so. Popolo in lotta, popolo senza pace. Samia è il simbolo triste e coraggioso di chi la vita, a costo di morire, la vuole cambiare. È agosto, è il 2008, stadio olimpico, nido d’uccello,Giochi di Pechino,giochi muscolo­si fatti per raccontare una potenza che per una manciata di secondi si trasformano però in Giochi di dolcezza infinita. Succede nelle batterie dei 200 metri donne.Corsia 7,c’è Isa­bel Le Roux, sudafricana, altra Africa rispetto a quella di Samia. Isabel non sa nulla di lei. Corsia 6,c’è Veronica Campbell Brown,fuo­riclasse, giamaicana, è tesa, sprizza muscoli. Non sa nulla di Samia, di quella ragazza di 17 anni alla corsia 2, pronta a scattare con fuse­aux elasticizzati neri e t- shirt bianca e banda­na e il fisico di chi corre ma non si allena in centri specializzati e non segue la dieta degli atleti rispettando le proporzioni ottimali di glicidi, protidi, grassi, vitamine, sali minera­li, carboidrati e vattelapesca. Veronica Cam­pbell e le al­tre non sanno di lei e non la vedran­no neanche perché allo sparo correranno via e sarà gara solo loro, 23 secondi e rotti, gara a cinque, metafora di chi si è preparato e affro­n­ta la vita e magari perde ma ha tutto quel che serve per farcela. Dietro, molto indietro, 32 secondi il suo tempo, Samia corre e vive la propria di metafora, quella di chi anche se dà l’anima no, proprio no, non potrà mai rag­giungere gli altri.

Perché gli altri sono troppo avanti, gli altri appartengano a un mondo che non sarà mai a portata.
«Ho rappresentato la Somalia, ho tenuto in mano la bandiera, ho sfilato con i grandi at­leti e sono orgogliosa di quanto fatto » dirà fie­ra, senza neppure approfittare dei media del mondo per raccontare del padre ucciso ne­gli scontri a Mogadiscio, della povertà, dei
cinque fratelli. Purtroppo senza neppure sa­pere come verrà accolta in patria. Perché nes­suno ha visto la sua gara, non è stata trasmes­sa, nessuno sa e anche lei, ben presto, è il 2009, capirà che è molto meglio non sapere nulla, persino negare di essere un’atleta. A convincerla le minacce ricevute da al Sha­baab, il partito della gioventù, il gruppo insur­rezionale somalo, fondamentalista islami­co, che vieta di vedere e praticare gli sport. Al­la prima occasione Samia fugge, scappa in Etiopia, prova persino a riprendere gli allena­menti, stavolta i 1500, obiettivo Londra, nien­te da fare.
Già, Londra. Dopo i Giochi appena conclu­si è un gran parlare di eroi sportivi. Fra questi Mo Farah,oro dei 5 e 10mila,oro per l’Inghil­terra dove si è rifugiato a 8 anni scappando dalla Somalia.Già,Londra.Dopo i Giochi Ab­di Bile, campione del mondo nei 1500 a Ro­ma ’ 87, icona dello sport somalo, durante un incontro ha gelato il mondo dello sport: «Sa­pete che fine ha fatto Samia? Ve lo dico io: è morta. Su una carretta del mare... cercando di raggiungere l’Italia dalla Libia».

Pechino, t-shirt bianca e quella corsa e le cinque atlete che fuggono via. Irraggiungibi­li.

Metafora di una vita.

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