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Lewis, da baby a big in una notte

A 10 anni si presentò col coraggio dei fenomeni al boss McLaren

Lewis, da baby a big in una notte

Fra poche settimane, il 3 dicembre, Lewis Carl Davidson Hamilton potrebbe varcare di nuovo le eleganti porte del Grosvenor House Hotel in Park Lane a Londra. Potrebbe perché nel 2015 si limitò a mandare un video messaggio. In formato digitale o in carne ed ossa, alla serata degli oscar del motorismo mondiale organizzata da Autosport molti lo applaudiranno per il titolo conquistato ieri sera in Messico su pista poco amica e poco amata e dopo l'autoscontro con Vettel. Altri lo celebreranno per il gradino prestigioso del podio iridato che ora occupa insieme con Alain Prost e proprio Sebastian, unici, con lui, ad aver vinto quattro mondiali anche se «non mi interessa aver eguagliato il record di Seb, se avessi avuto io la sua macchina l'avrei ottenuto da tempo» ripete Lewis da tempo. Davanti a loro solo Fangio, a quota cinque, e re Schumi solitario a sette. In occasione dell'evento londinese, Hamilton non potrà far nulla per impedirsi di viaggiare nel tempo e tornare alla prima volta, distante ormai ventidue anni, in cui venne celebrato nella serata londinese.

È dicembre, è il 1995 e la grande sala dell'hotel è affollata dal mondo che conta. Lewis ha dieci anni, è fresco vincitore del campionato kart cadetto e si aggira sprofondato in una giacca di velluto verde scuro ricevuta in prestito da un altro giovane pilota di kart, Mike Spencer, suo predecessore in vetta alla serie britannica. Assieme alla giacca, gli ha consegnato anche un bel paio di scarpe di cuoio nere. Luccicano. Lewis cammina guardandosele soddisfatto, grato a papà Anthony per l'idea che ha avuto di chiedere in prestito tutto. Per la verità, Lewis è grato per molte cose a suo padre. Per l'educazione che gli ha dato; per la fede; soprattutto, è riconoscente per i tre lavori che il pover uomo è costretto a fare pur di mantenere la parola data al figlio: «Tu ami i kart, allora dacci dentro senza mai perdere di vista lo studio e di essere un bravo ragazzo. E io farò tutto quel che serve per non farti mancare mai il mio sostegno economico». Perché di soldi non ce ne sono. Anche per essere lì, quella sera, papà Anthony ha fatto di tutto. La mattina in treno verso Londra a lavorare come dipendente delle ferrovie locali; al pomeriggio programmatore e, appena giunto a casa, subito fuori a montare cartelli con la scritta in vendita per la locale agenzia immobiliare. Non proprio una passeggiata, la sua vita.

Lewis s'aggira per la sala con sotto braccio un quadernetto vuoto da riempire di autografi. Anche questa è un'idea di papà Anthony. Colin McRae, fra i piloti, è quello che gli dà subito corda. «È proprio simpatico» pensa mentre nell'animo combatte tra felicità e dispiacere. Da una parte sa di essere là dove da sempre, da quando ha acceso il primo kart, sogna di essere; dall'altra si sente a disagio. A imbarazzarlo non sono la giacca grande e le scarpe non sue, bensì quel pensiero in fondo crudele nella sua schietta ingenuità di essere arrivato tardi. «Per un anno, un solo anno ho perso l'occasione di conoscere lui...».

Ayrton Senna. Lui è il grande campione brasiliano morto l'anno prima, a Imola, il suo idolo, il suo faro. Mentre si rammarica, Lewis non sa che ancora pochi minuti e incrocerà l'uomo che gli cambierà la vita: Ron Dennis, il boss della McLaren Mercedes. «Forza, va da lui con il quaderno», gli dirà papà Anthony, ma il piccolo andrà ben oltre. «Mr Dennis, mi fa un autografo? E... e io un giorno vorrei guidare per lei... e mi scrive qui anche il suo numero di telefono?» azzarderà il campioncino di kart. «Sì, ma tu studia» gli dirà il boss, «e richiamami entro 9 anni...» gli scrive sul foglio. Sarà Dennis a telefonare. Due anni dopo. Dopo altrettanti titoli kart vinti dal ragazzino. Perché per realizzare i sogni servono gli attributi. In pista e fuori. Da grandi e piccini.

BCLuc

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