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L'ultimo grande dribbling di Long John Chinaglia

Giorgione è morto in Florida a 65 anni. Mito nella Lazio poi l'avventura americana. Un'esistenza imprevedibile e sghemba tra mattane, bulli, pupe e cronache giudiziarie

L'ultimo grande dribbling di Long John Chinaglia

Penso che sia morto tenendo il capo appena piegato verso la spal­la sinistra. Così faceva prima di un calcio di rigore, di un’intervista, di un sorriso, di un ghigno. Stavolta definitivamente. La vita di Giorgio Chinaglia è stato questa, di sghem­bo, mai retta davvero, anche quan­do calciava ferocemente un pallo­ne, fosse sui verdi prati di Swansea, doveva aveva incominciato la sua avventura, prima con il rugby poi con il soccer, già alle prese con le ris­se e i castighi, passando qualche notte sul tavolaccio di una prigione militare, per trasferirsi in Italia sui campi polverosi di Carrara e poi con l’Internapoli per arrivare, infi­ne, negli stadi illustri d’Italia,con la maglietta celeste della Lazio, pri­ma di finire sotto i grattacieli di New York con i Cosmos di Pelè e Be­ckenbauer. Dopo, il buio. La Flori­da è stata la terra del suo ultimo so­gno, lacerato da un infarto, morta­le. Terra di fuga solitaria, di esilio, di vergogna, per nascondersi alla giustizia italiana, alla legge violata.

Ha deciso di chiudere con que­sta esistenza bellissima e, insieme, maledetta, il primo di aprile, il gior­no degli scherzi che erano le sue abitudini, il modo di affrontare un avversario, un amico, giocando sempre, troppo. «Mio fratello è fi­glio unico perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosi­none ». Rino Gaetano gli aveva dedi­cato queste parole della canzone, quasi a ribadire l’imprevedibilità di un titolo, di una storia, di una esi­stenza, di un uomo. Avevo riascol­tato la voce di Giorgione che com­mentava, insieme con Charlie Stilli­tano in una radio americana, la morte di Socrates. Il tono delle pa­role era raschiato, triste per la fine del brasiliano ma anche per altro.

Per i contemporanei Giorgio Chi­naglia non esiste se non nelle note di cronaca giudiziaria, camorra, ri­ciclaggio, mandato di cattura, un tentativo maldestro di scalare la La­zio di Lotito. Ma Long John, come lo avevano ribattezzato, rubando l’appellativo che fu di John Char­les, è stato un calciatore vero, cen­travanti si diceva e si scriveva pri­ma che i ruoli venissero manipola­ti, di potenza esplosiva e di tecnica imprevedibile, capace di gol prepo­tenti e di gesti acrobatici raffinati. Era lui la Lazio, assieme a Pino Wil­son che si appalesava agli allena­menti guidando una Rolls Royce, era lui la Lazio insieme con Re Cec­coni che per uno scherzo, forse non proprio uno scherzo, venne uc­ciso a pistolettate da un gioielliere, durante una finta rapina; era lui la Lazio insieme con Martini che pilo­ta­va gli aerei prima di darsi alla poli­tica; era lui la Lazio insieme con Tommaso Maestrelli, l’allenatore che lasciò questo mondo, prima di viverlo tutto, per un male più oscu­ro della vita. Chinaglia e la sua squa­dra arrivarono allo scudetto gio­cando un football meraviglioso e pazzo come erano i suoi attori, co­me era il suo protagonista capocan­noniere del campionato. Ferruc­cio Valcareggi se lo portò in nazio­nale già sapendo che avrebbe dovu­to gestire un cavallo da palio e da gran premio.

Il mondiale di Germa­nia confermò la previsione, contro Haiti il nostro commissario tecni­co, mentre la squadra stava sotto di un gol, decise di richiamare il cen­travanti per far posto a Pietro Ana­stasi; Chinaglia prese a correre ver­so lo spogliatoio, tenendo anche al­lora il capo chino sulla spalla, pas­sò di fianco la panchina azzurra, Valcareggi candidamente, restan­do però seduto, allungò il braccio sperando in un saluto, Chinaglia lo mandò a spalare il mare, muoven­do l’aria con la mano con segno di disprezzo. Toccò a Maestrelli reci­tare la parte del sarto, raggiunse il ri­tiro di Ludwigsburg, convinse Chi­naglia a chiedere scusa, Carraro e Allodi avevano deciso di rispedirlo a Roma, Franchi e il segretario Bor­gogno mediarono, il vaffa di China­glia restò nella storia della nostra nazionale e di Uccio Valcareggi. L’avventura americana fu colos­sale, i Cosmos erano i pionieri di uno sport sconosciuto, trascurato. Per cinque volte Chinaglia vinse il titolo di cannoniere, gli restò in go­la la mancata partecipazione a «Fu­ga per la vittoria» il film con Stallo­ne, Pelè e Bobby Moore. Di quei giorni yankee conservo la magliet­ta, bianca e verde, con il numero 9 e il cognome sulla schiena: «Ogni tanto ripensa a chi hai conosciuto» mi disse, sorridendo, con il capo chino a sinistra. Si possono ricorda­re i gol, mille, il pallonetto irriveren­te sulla testa dorata di Gianni Rive­ra, le notti di champagne, bulli e pu­pe, la moglie americana Connie, le bravate negli alberghi con i sodali biancazzurri, quellavoltacheordi­nò a un compagno, dopo averlo riempito di denari, di andare al­l’edicola più vicina e di acquistare tutti, ma tutti davvero, i giornali e le riviste e ancora, i colpi di pistola per spegnere gli abat jour degli ho­tel, la follia consentita a chi vive in un mondo diverso da quello reale, quotidiano, normale e pensava di seguitare quell’esistenza irregola­re.

Giorgio Chinaglia è morto nel giorno in cui se ne è andato Anto­nio Ghirelli che per sei anni fu il grandissimo direttore de il Corrie­re dello Sport . Di lui Ghirelli scrisse e raccontò la carriera migliore. As­sieme, su sentieri diversi, lontanis­simi, hanno chiuso l’ultima pagina di quel tempo.

Un’altra fetta della nostra vita se ne è andata.

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