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Mancini e quei ragazzi anni Novanta

Mancini Roberto, numero 18. Erano le notti magiche. Non tutte. In occasione di compleanni, anniversari, onomastici, feste e cerimonie, si rispolverano i ricordi e così per Roberto Mancini oggi di anni cinquanta, beatissimi, si gioca con il passato suo e del nostro football. Perché, nonostante ogni tentativo di fuga, il calcio deve conservare la memoria, rispettarla, senza cadere nella trappola della nostalgia. Mancini oggi, tra quattro giorni Schillaci Salvatore, gli occhi più spaventati di quel mondiale che è lontano ma non può essere affatto gettato a mare, come qualcuno ha saputo fare, dai capi che erano Carraro e Montezemolo, fino agli architetti e ingegneri capaci di mettere su edifici e stadi da paura, ci bastino il San Nicola e il Delle Alpi, ditte senza storia e con molta cronaca.

Mancini con il numero 18 sulla maglietta azzurra non fu eroe e nemmeno mattatore di quei giorni. Comparsa, non figurante. Ventiquattro anni dopo sta su una panchina nobile, così come Ancelotti sodale suo al tempo, gli altri si sono sparsi nelle tivvù a occupare il ruolo schifato quando erano calciatori, Bergomi, Marocchi, Ferrara, Vialli, Serena, Berti, Ferri, alcuni fanno gli allenatori tra alti, pochi, e bassi, molti, tipo Donadoni in equilibrio instabile a Parma, Vierchowod licenziato dall'Honved, poi ci sono i dispersi, dimenticati o pensionati, Franco Baresi, De Agostini, De Napoli, Maldini, Giannini, Carnevale, i tre portieri Zenga, Tacconi e Pagliuca, ogni tanto un'apparizione poi il silenzio.

Un campione rivive la propria carriera con le figurine, ecco perché Mancini oggi ha un album pieno di fotografie belle, in Italia e all'estero, passando da Londra a Istanbul come seppe fare da Jesi a Bologna, prima di andare da Mantovani alla Sampdoria che spese, per lui, una folle cifra, trattavasi di 4 miliardi di lire e così mi spiegò, al telefono da Phoenix, dove un chirurgo americano gli sistemò il cuore: «Ho deciso di fare un film su Gesù, non posso risparmiare sulla croce».

Croce di oro zecchino per un diciottenne da zecchino d'oro capace in seguito di ripagare con gol famosi e scudetti e altre cose di classe e di stile. Non soltanto a Genova, poi a Roma con la Lazio.

L'epoca di Italia '90 fu magica non soltanto nella notte cantata dalla Nannini. Non arrivò il titolo grazie a una sciagurata combinazione Zenga-Ferri mentre la zazzera bionda di Caniggia fece il resto. Mancini, numero 18, non bagnò mai di sudore la maglietta azzurra. Vicini non gli concesse nemmeno un minuto, già era accaduto con Bearzot che lo castigò dopo la notte poco magica, trascorsa fuori dall'hotel di New York durante una tournée. Mai un mondiale, dunque, oggi a cinquant'anni potrebbe anche riderci su mentre al tempo disse cose di fuoco contro il cittì, la più gentile: «Non è un cuor di leone».

Ma sono parole antiche, la cronaca ha spiegato che gli errori degli allenatori vengono smascherati dai gol e dalle prestazioni dei calciatori, quelli veri, non costruiti in laboratorio, con tatuaggi e affini. Mancini Roberto appartiene alla tribù di quelli che piacciono un sacco ai presidenti, per lui Mantovani, come detto, aveva passione clamorosa, ma meno ai tecnici pervertiti di tattica.

Oggi Mancini è allenatore e deve avere capito che cosa significhi gestire un talento. Non ce ne sono molti in giro, gli è capitato tra le mani tal Balotelli e sappiamo come sia andata a finire, forse mai a incominciare.

Il totale della vicenda è che Mancini può festeggiare anni cinquanta, quelli belli, in cui non si è più giovani ma niente affatto anziani, età giusta, dipende dall'uso che ne vuoi fare. Mancini ha appena ricominciato a divertirsi, si fa per dire, in Italia, nel luogo delle sue ultime avventure.

Ha visto cose turche, ha conosciuto il blue moon di Manchester ma, alla fine, ha riavvolto la sciarpa al collo e, con quella, il film della vita.

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