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Il Napoli sfida Salvini: pronti a fermarci contro i cori razzisti

L'annuncio dopo che il ministro aveva detto no ai match sospesi. Uefa: «Protocollo da rispettare»

Il Napoli sfida Salvini: pronti a fermarci contro i cori razzisti

«La prossima volta che accadrà una cosa del genere, ce ne andiamo dal campo», tuonò l'allenatore del Napoli Carlo Ancelotti dopo la folle serata del 26 dicembre a San Siro. Nella quale echeggiarono, a margine degli scontri ultras (con tanto di tifoso morto), i cori razzisti per Koulibaly. Il club partenopeo è pronto a continuare la battaglia intrapresa dal suo tecnico, con buona pace del ministro dell'Interno Matteo Salvini. «La questione è scivolosa, no allo stop delle gare», così il vicepremier leghista al termine del vertice di lunedì con il Coni e il mondo del calcio. Una posizione che ha lasciato perplesso il Napoli. Che ha rilanciato: conferma della linea della fermezza e qualche iniziativa in campo, anche clamorosa, in caso di nuovi cori razzisti durante le gare.

La ferita è ancora aperta, i «buu» contro il difensore senegalese - in attesa della sentenza sul ricorso per la squalifica rimediata a causa di quegli applausi a suo dire indirizzati a chi lo aveva insultato e non all'arbitro Mazzoleni - hanno fatto il giro del mondo. Il presidente della Figc Gravina ha indicato la rotta scelta dal calcio, il più possibile fedele ai protocolli internazionali antirazzismo: semplificare la procedura per lo stop alle partite in caso di cori discriminatori, ovvero un primo richiamo con l'altoparlante a gioco fermo e a centrocampo e un successivo richiamo negli spogliatoi. Anche se l'ultima parola non sarà mai dell'arbitro, ma del delegato alla sicurezza dello stadio.

L'Uefa ha ribadito che nei casi di razzismo bisogna rispettare il protocollo (la gara Inter-Napoli andava dunque sospesa), Salvini ha indicato una via diversa. «Sono convinto che chiudere le curve e sospendere le partite per colpa di pochi delinquenti sia la sconfitta del calcio», il suo tweet di ieri. Ma il Napoli non cambia linea, anche a costo di perdere la gara a tavolino. Una linea sposata pure dal presidente De Laurentiis, a Los Angeles per impegni cinematografici, ma costantemente informato sulla vicenda. L'unica azione intrapresa è stata quella del giudice sportivo che, oltre a squalificare Koulibaly per il cartellino rosso frutto più di frustrazione e rabbia, ha sanzionato l'Inter con due partite in casa a porte chiuse e la terza con la chiusura parziale dello stadio di San Siro. Il club non farà ricorso, rimborserà i biglietti già venduti per le partite con Benevento e Sassuolo e ha chiesto alla Figc di riempire il 19 gennaio il settore Primo Anello Arancio con i bambini delle scuole calcio interiste e i ragazzi del Csi.

Manca una strategia comune, come ha confermato il tavolo sulla sicurezza diventato una semplice parata. E manca l'applicazione di quel codice etico, entrato in vigore da questa stagione, ma applicato (e in maniera blanda) solo da 4 club di serie A. Le società avrebbero infatti la possibilità di «squalificare» i loro tifosi, arrivando a revocare l'abbonamento se si rendono protagonisti di comportamenti scorretti fuori e dentro lo stadio. Più che le celle negli stadi modello inglese o i treni speciali per le trasferte o ancora gli orari diurni per le partite a rischio, servono atti forti. E una squadra che abbandona il campo ai primi segnali di razzismo lo sarebbe.

Intanto all'Adnkronos ha parlato il capo ultrà dei Boys interisti Franco Caravita: «Nelle curve degli stadi non c'è razzismo, ma campanilismo, i «buu» a Koulibaly sono un modo per innervosire un avversario.

Piovella? Non ha provocato la morte del povero Belardinelli, non capisco perché sia in carcere».

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