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Ormezzano, un cuore Toro e la scrittura come droga

Dal ciclismo all'uomo sulla Luna, per lui il giornalismo è un'irrefrenabile necessità. Senza nascondere il tifo

Ormezzano, un cuore Toro e la scrittura come droga

Continua il nostro viaggio tra i maestri del giornalismo italiano che hanno raccontato le pagine più belle dello sport. Visti da vicino attraverso i ricordi personali di chi li ha avuti come modelli, punti di riferimento, oppure compagni di trasferte o di redazione.

Di sé, Gian (staccato) Paolo Ormezzano dice: «Sono nato a Torino, 17 settembre 1935, e da quel giorno tifo per il Toro». Cuore, fegato, ogni organo vitale rigorosamente granata, Ormezzano giornalista onnivoro, formidabile affabulatore, in un suo autoritratto sostiene di aver avuto due «fortune speciali»: «Non essere nato donna afgana a Kabul e uomo juventino a Torino». La sua fede è notoria, ma altrettanto certificati sono i suoi legami con l'universo bianconero a cominciare da Giampiero Boniperti di cui è stato amico e autobiografo, di Michel Platini, Giovanni Trapattoni e di tanti altri. Tra le sue collaborazioni, c'è stata perfino la rivista Hurrà Juventus (sotto mentite spoglie, ovviamente). Solo l'irrefrenabile necessità di scrivere, poteva superare il suo tifo spietato e totalizzante.

Brillante e battutaro, Gpo, come lo chiamiamo noi che l'abbiamo frequentato nel tempo e nello spazio, è sempre stato positivo, ottimista e avventuroso. Me lo ricordo a Dallas, Usa 1994, mentre guidava abbarbicato sul volante di una piccola Ford in mezzo a un mini tornado. Totalmente privo di spocchia, di arroganza, di condiscendenza, ironico e auto-ironico, ha legato sempre con tutti. L'ho visto inferocito solo la notte del 24 febbraio 2002 dopo il pareggio in extremis (2-2) nel derby dello juventino Maresca che fece il gesto del toro portandosi gli indici alle tempie. In quella circostanza voleva far scorrere il sangue.

Ormezzano ha scritto di ogni argomento, dal ciclismo (la disciplina più amata) alle freccette. E' sempre avanti, quello che noi stiamo facendo qui, lui l'ha già fatto, pubblicando, nel 2016, I Cantaglorie (66th and 2nd editore) dedicato alle grandi penne dello sport. «Ho scritto troppi libri» ha detto, aggiungendo: «Mai dottore di niente, molti esami vani alla facoltà di Giurisprudenza (meno quattro alla laurea), conquista perfetta del francese, goffa, però efficace e ampia dell'inglese e gaglioffa però sicura dello spagnolo ma - anche se soprattutto e troppo - lavoro&lavoro&lavoro, dai diciassette agli ottant'anni».

Ha seguito tutti gli sport, è stato inviato a 24 Olimpiadi, era a Cape Canaveral per lo sbarco dell'uomo sulla Luna. Non ho mai visto nessuno scrivere e conversare allo stesso tempo. Nell'inverno del 1988 un gruppetto di giornalisti italiani salì a Parigi per l'insediamento di Platini sulla panchina della Francia. Dopo la conferenza stampa Michel si fermò a parlare con les italiens. Ormezzano, con uno dei primi pc appoggiato su una balaustra, parlava e intanto, a due mani, scriveva il pezzo.

Il primo contatto con lui l'ho avuto nel 1970. Ero un ragazzino e rimasi imbambolato davanti a una copia di Tuttosport, che Gpo dirigeva, appesa dal mio giornalaio con gli altri quotidiani. Scoprii anni dopo che quel titolo geniale era suo: Din, Don, Dancelli, dedicato alla storica vittoria di Michele Dancelli alla Milano-Sanremo del 1970 dopo 70 km di fuga.

Ha amato lo sport e lo ha raccontato come pochi, ma a lui dobbiamo la frase più politicamente scorretta mai pronunciata sull'argomento: «Lo sport fa male». E se ci pensate non ha tutti i torti.

A Gpo piace andare contro la corrente ma anche seguirla. Mai omologabile, mai banale, diverso da tutti, ma non presuntuoso: si è sempre buttato nella mischia insieme con l'ultimo arrivato e quasi sempre con più grinta. Nel 1992 a Barcellona, sfondammo insieme le transenne per correre sul traguardo dove Fabio Casartelli aveva appena vinto l'oro olimpico. A Pasadena, nel luglio del 1994, dopo la finale Brasile-Italia, lo trovai in zona mista/mischia, a sgomitare in quel carnaio di brasiliani, con la stampella. Aveva avuto un attacco di gotta.

Gli piaceva presentarsi «sono Ormezzano» e, sebbene sia stato per decenni l'inviato di punta della Stampa, aggiungeva «di Famiglia Cristiana». Di tutte le sue famose marchette, come vengono definite le collaborazioni esterne nell'ambiente, è stata quella a cui ha tenuto di più e anche la più lunga, dal 1969 al 2014. Ma a tutte ha dato comunque il meglio di sé. Nessuno ha mai avuto, e chiaramente avrà più, vista la fine miseranda di questo mestiere, un rapporto velocità/qualità/ di così alto livello come Gpo. Poteva sfornare venti pezzi di seguito senza perdere lucidità e ritmo. E' stato anche opinionista per la Radio Vaticana. Quando cominciava il collegamento, nella redazione della Stampa risuonava, forte e chiaro, con la sua voce inconfondibile: «Sia lodato Gesù Cristo». Storici i suoi abbiocchi. Dormiva per un po', poi riapriva gli occhi di scatto e si rimetteva al lavoro riprendendo dall'ultima parola, completando la frase, come se non avesse mai smesso.

Gpo, a 82 anni, è ancora sulla cresta dell'onda e la sua ultima collocazione è al neonato Corriere di Torino. Ha scritto di tutto e per tutti, è stato direttore perfino di un giornale finanziato e sponsorizzato da un'agenzia di pompe funebri, di proprietà di un ex ciclista, Alcide Cerato. «Un buon gregario, io lo chiamo il barista», disse Gpo con il suo tradizionale humour, nero per l'occasione. Il periodico si chiamava La buona sera e si occupava del rito funebre, in ogni suo aspetto. Solo Gpo, poteva riuscire in un'impresa del genere senza cadere nel ridicolo. Un mito.

(21. Continua)

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