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L'era Belinelli: primo anello d'Italia. Eppure lo criticavano

Campione Nba con i San Antonio Spurs: battuta Miami. A 21 anni emigrò per l'America: nessuno credeva in lui

L'era Belinelli: primo anello d'Italia. Eppure lo criticavano

Notti magiche sognando un gol, ma anche un canestro. Fra un temporale e l'altro il piacere di farsi smentire da campioni dello sport nati e cresciuti da noi. Un bacio a Balotelli che non riusciamo a vedere come idolo anche quando ci intenerisce parlando bresciano, un abbraccio forte a Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto, campione NBA con la maglia di un altro santo, quello texano di Alamo, con gli Speroni di San Antonio diventati campioni della NBA, che abbiamo amato tanto, ma anche criticato molto per quella smania di affermarsi nell'altro mondo quando campione d'Italia a 19 anni con la Fortitudo aveva preferito l'avventura nel mondo dei sogni invece di presentarsi più completo al mondo dove si gioca il basket più coinvolgente.

Se ne è andato a ventun anni verso il sole di San Francisco, c'è sempre qualcosa di mistico nella sua vita, per un durissimo praticantato dove vogliono fatti e non sono pazienti se soffri ambiente, tristezze. Due anni in California, poi il gelo di Toronto, due stagioni imparando la fantasia del jazz a New Orleans. Sempre comparsa fino alla chiamata di Chicago. In mezzo ritorni per vestire la maglia azzurra sentendosi sempre prigioniero del guado, giovane Alessandro, adattabile, camaleontico, mai felice. Poi Chicago dove ha segnato 702 punti, il massimo per lui partito con 95 in tutto all'esordio per i Golden State, in quella gabbia dorata che lo pagava meglio di qualsiasi grande squadra europea, ma non sembrava riconoscerne il talento che da noi faceva la differenza. Era già capitato ad altri fenomeni, cominciando da Drazen Petrovic e o il grande rivale Danilovic in Bononia.

Poi un bellissimo europeo a Capodistria con Azzurra Tenera, la quasi maturità, e, finalmente, la chiamata dei San Antonio Spurs, oltre 2000 minuti giocati, mille punti segnati, il salto di qualità.

Nelle notti dei grandi schermi ce n'era uno sempre acceso a Sangio, alle porte di Bologna dove è nato cestista intercettato dalla Virtus nel 2002, portato in trionfo dai rivali storici della Fortitudo dal 2003 al 2007, quando la squadra del grande Popovich, il gruppo multietnico che ha dimostrato all'America che esiste anche un basket al di fuori del loro cerchio magico, lo volle per la stagione della vendetta e dell'assalto vincente ai Miami di Lebron James che l'anno prima avevano rubato quello che sembrava l'ultimo urrah agli Speroni che con quella sconfitta, considerando l'età dei suoi uomini chiave, sembravano destinati ad urlare nel silenzio.

Ci ha creduto, si è messo al servizio di una squadra dove la palla la toccano tutti, di un gioco che lo ha fatto sentire subito importante, che gli ha dato la serenità per vincere la gara nel tiro da tre punti in quel varietà che spezza una stagione sempre infernale di viaggi e partite senza quasi mai un riposo vero.

Adesso siamo qui tutti commossi mentre Beli cerca di nascondere le lacrime al momento di accarezzare l'anello dei campioni, il primo per un giocatore di scuola italiana, per la verità Bologna, ramo Virtus, aveva svezzato anche l'argentino Manu Ginobili che Ettore Messina preparò per una carriera straordinaria fra NBA e nazionale albiceleste. Ha un rospo in gola. Ringrazia i genitori, gli amici che lo hanno sostenuto anche quando in tanti lo criticavano. Ci ha rubato notti speciali e deve avergli fatto uno strano effetto il meraviglioso telegramma del presidente federale Petrucci che al momento del trionfo lo ha voluto ringraziare: «Caro Marco è stata una grandissima emozione, impensabile per un italiano... Sei motivo di grande affetto per il nostro sport. Hai meritato il titolo con la tua storia personale, fatta di umiltà, tenacia, ma anche grande talento coltivato giorno per giorno lavorando duramente in palestra, mettendoti sempre al servizio della squadra. Agli Europei hai rappresentato nel modo migliore l'Italia e sono convinto che continuerai a farlo. Caro Marco la pallacanestro italiana è fiera di te».

Certo che lo siamo anche noi scettici e la prima volta che passeremo da Ugo, a Rivabella, la tana del basket sulle colline bolognesi dove Belinelli passava il tempo alla sua maniera, osservando, porteremo il sacco di cenere che ci siamo versati sulla testa nella notte del trionfo dove ci sembrava meraviglioso anche un rimbalzo, anche i pochi minuti trovati nei play off rispetto al campionato. Protagonista nel gioco di una squadra che parlava tante lingue. Bello sbagliarsi.

Bellissimo poter avere come ambasciatore un uomo come questo ariete con il fascino di un giovane Toscanini, energico, leale, indipendente, anche se qualche volta ci sembrava autodistruttivo.

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