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Rocco e i mille altri Nereo nascosti nel calcio del 2000

Le frasi ad effetto di Mourinho, i modi duri e il calcio spiccio di Capello, il buon vino con cui festeggia Ferguson, il football di Ancelotti

Rocco e i mille altri Nereo  nascosti nel calcio del 2000

Nereo Rocco compie oggi cento anni. Portati benissimo. Senza ritocchi, trucchi, cerone e sovrattacchi. Basta guardarsi attorno. Il football è pieno zeppo di Rocco e i suoi fratelli e figli, parenti stretti e lontani, tutta gente furba e astuta che sa vendere il prodotto rivisto e corretto con il linguaggio moderno e stupidotto. Smascherati, riappare la vera identità, non prenderle e darle.

Nereo Rocco, dunque, è vivissimo, presente dovunque, non più, ahimè, nello stile goldoniano del personaggio ma nel dire e nel fare di mille dei suoi eredi, colleghi e sodali.
Perché, forse, Josè Mourinho di zero tituli o che storpia il cognome dei concorrenti non è il paron che, a chi gli domandava un parere su Pippo Marchioro da Affori, di passaggio al Milan che fu, così replicava: «Cossa gha vinto?»; non abbisogna di traduzione, lo special one già esisteva tra di noi.

Personaggio felliniano, perché il regista di Rimini lo tentò inutilmente come protagonista di Amarcord, nel ruolo di Aurelio, il padre di Titta. Nereo non era tipo da riflettori e Cinecittà, il suo set era il campo, i suoi profumi erano quelli dell'olio canforato dello spogliatoio.
La bazza, il mento di Nereo e il muso rincagnato di Fabio Capello, parole poche, sostanza tanta, calcio spiccio, pratico, comunicazione immediata, Venezia Giulia e Friuli hanno analogie mille, vapori e silenzi, solitudine e generosità, vino e cibo. Rocco, per gli incompetenti e superficiali, veniva considerato un buon fattore, un uomo rozzo con l'animo buono (Brera così li riduceva ai minimi) così qualcuno dice di Edy Reja che da quelle terre viene e deve fare i conti con un mondo che lo respinge, per le idee di gioco, datate, superate, come, negli anni Cinquanta, la critica intelligente e il popolo bue, di Trieste e di Padova, insultava, sputava, prendeva a calci e pugni il torpedone che trasportava le squadre di Nereo, l'allenatore del «meso sistema, con un unico difenzore» che era il Blason, un cognome da garanzia.

La tattica e non il tatticismo, la logica disposizione degli uomini secondo necessità e caratteristiche degli stessi e non l'inseguimento a formule di moda che conducono a sconfitte e retrocessioni, come accadde alla Triestina del doppiovemme prima che Nereo cambiasse usi e costumi, creando poi un Padova energico, da terzo posto, ostacolato e disprezzato ma capace di offrire cinque, dico, cinque attaccanti alla nazionale, Rosa, Stivanello, Nicolè, Mariani, Brighenti.

Una bottiglia di vino serviva a capire meglio le idee, i pensieri, la vita di Rocco. Perché pochi conoscono le abitudini di sir Alex Ferguson il quale è scozzese, è figlio del popolo, resiste al logorio del football moderno, ha scorza durissima come la gente coraggiosa della sua terra ma dopo le grandi partite sa regalarsi una bottiglia di rosso, di Francia e di Toscana, dipende dal fornitore di Manchester.

Facile dire di Trapattoni che dal maestro ha imparato l'arte e il mestiere, di Ancelotti che, per voce di popolo bue come sopra, è rozzo e ha la faccia da maiale ma sa fare di football e senza giocare con le tre carte del modulo offensivo e spettacolare. Rocco e mille altri Nereo, camuffati per ignoranza e vergogna miserrima.

Palla lunga e pedalare, nient'altro che correre e andare all'attacco, pensateci bene, badando alle spalle, perché vince chi segna un gol ma non ne prende due, vince chi sa amministrare le forze e i cervelli di ragazzi cresciuti in fretta, se i presidenti sono ricchi scemi, secondo antica definizione di Giulio Onesti presidente del Coni, i calciatori sono ricchi ma per niente scemi, anzi. Rocco lo sapeva, giocava sull'animo infantile dei suoi, su Rivera detto bambin, su Anquilletti detto gagliardetto perché ogni lùnedi (con l'accento sulla prima vocale, come màrtedi, secondo pronunzia del paron) faceva il giro dei club dei tifosi a raccogliere premi e distintivi, su Karl Heinz Schnellinger che «mona, el xé bravo perché xé biondo».
Cento anni si vivono così, con il pallone, il freddo, la nebbia, il fango nelle scarpe, l'odore di segatura nell'area di rigore, il cappello sulle ventitré, il bavero alzato per difendersi dalla bora, scudetti, coppe, applausi, nostalgia, lacrime. Il tempo non conta. Conta quello che resta. Auguri Nereo.

Anzi, auguri signor Rocco.

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