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Sacchi avvisa: «Troppi stranieri Il calcio italiano perde identità»

L'invasione nelle giovanili alla base della crisi delle nazionali Il tecnico parla di «ragazzi di colore» e si becca del «razzista»

Eccolo l'ultimo mostro da sbattere in prima pagina. Si chiama Arrigo Sacchi, ha fatto il ct della Nazionale sfiorando il titolo mondiale, col Milan di Baresi e Gullit ha vinto tutto, ha fatto la fortuna dell'ultimo Parma di Tanzi e lavorato al Real Madrid dei galacticos, è famoso, è persino un berlusconiano della prima ora: ci sono tutti i requisiti per impiccarlo a una frase, «giocatori di colore» che da questi parti, nello squallido regno di Ipocrisia, vuol dire razzismo. Così nel giro di qualche ora è partito il tam-tam mediatico con la partecipazione attiva di siti e agenzie, oltre che di improbabili censori (Raiola) senza che nessuno, giornalista o commentatore, si sia preoccupato di ascoltare, per intero, la sua intervista dettata ai microfoni di Montecatini, al margine della premiazione intitolata a Tommaso Maestrelli. Operazione invece che noi del Giornale abbiamo realizzato con un semplice clic su uno dei tanti indirizzi telematici. E abbiamo ascoltato la lucidissima analisi dell'Arrigo, partito da un giudizio storico fondato («tutte le volte che nel calcio italiano c'è stata l'invasione di stranieri, la Nazionale e i club sono andati male») puntualmente confermato da dati e cifre («il periodo aureo del calcio italiano si è realizzato tra l'89 e il 2005 con una striscia di finali e di coppe vinte: c'erano pochi stranieri ma di qualità») esposti a spiegazione del suo aggettivo utilizzato sul conto della svolta milanista.

Già, ecco l'altro peccato del mostro di Fusignano: ha definito «fantastico» il processo di «italianizzazione» deciso dal Milan di Berlusconi e realizzato da Galliani con gli arrivi, durante il mercato di gennaio, di Cerci e Destro, di Antonelli e Bocchetti. E qui, senza barattare per comodità una sola delle sue convinzioni, ha denunciato il motivo che sta dietro la recente invasione degli stranieri: il business. E cos'altro ci sarebbe, se non l'occasione di acquistare a 1 e rivendere a 100? Poi la frase incriminata: «Ho visto una partita del torneo di Viareggio nella quale c'erano alcuni ragazzi di colore». Ed è bastata questa frase, tirata fuori dall'intervista, per fare dell'Arrigo, che ha allenato ed è stato venerato da Rijkaard e Gullit, un becero razzista. Non è valso nemmeno il riferimento alla sua esperienza spagnola allorché ha ricordato che ai tempi di Beckham e Zidane, tifosi e giornalisti di Madrid rimproverano al club di non valorizzare a dovere «la cantera», che è poi il vivaio nazionale di una squadra di calcio spagnola per far capire che in gioco non c'è l'accoglienza del diverso o l'operazione Mare nostrum , bensì il patrimonio calcistico di un popolo, definito per questa cieca visione «senza dignità e senza orgoglio».

Invece di metterlo alla berlina, di scorticarlo vivo, bisognerebbe stringere la mano ad Arrigo Sacchi che ha avuto oggi come gli accadde ieri quando demolì il calcio italianista del Trap, il coraggio delle sue idee contro-corrente. Non ha orecchiato il problema, si è documentato, è stato in prima linea negli ultimi 4 anni guidando, in modo eccellente risultati alla mano, le nazionali giovanili della federcalcio. Ha viaggiato da un capo all'altro del Paese, controllato di persona allenamenti delle squadre primavera e i raduni dei tecnici, scelti secondo il suo dogma: prima il gioco, lo spettacolo, poi tutto il resto, risultato compreso. Ha parlato sapendo benissimo della materia trattata e della piega che il calcio ha preso nel nostro paese dove solo pochi esponenti (al fianco dell'Arrigo professando le stesse idee oggi c'è Antonio Conte) hanno scelto di denunciarne, senza se e senza ma, il declino.

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