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Il salto nel vuoto dell'atletica. Zero come le ore nella scuola

Nessun podio dopo 60 anni: pesano i casi Schwazer e Tamberi e il cambio generazionale. Ma il futuro c'è

Il salto nel vuoto dell'atletica. Zero come le ore nella scuola

RIO DE JANEIRO - Quando Alfio Giomi, presidente della federatletica italiana, ha visto transitare sul traguardo della marcia 20 km Antonella Palmisano, quarta, ed Elisa Rigaudo undicesima, non ha potuto fare a meno di pensare alla numero uno Eleonora Giorgi squalificata per la terza volta di fila, al bronzo lontano di Elisa, a Pechino 2008, a Marco Lingua di nuovo fuori per tre nulli nel martello, a Tamberi infortunato, a Schwazer radiato, alle medaglie così lontane nel futuro dell'atletica azzurra. Alfio Giomi aveva gli occhi lucidi di passione e dispiacere mentre con un filo di voce indicava le due donne della marcia, come a dire, hanno dato tutto ma questo è, questa è la nostra atletica oggi.

Zero medaglie. Come a Melbourne '56. E dietro questo precedente reso acuminato e doloroso da quanto è lontano nel tempo, dietro c'è però il futuro. Basta saperlo leggere. In fondo andò così anche 60 anni fa. Dopo i Giochi australiani sarebbero arrivati Roma e Berruti e la resurrezione. Dovrà essere così. Deve essere così. Anche perché non è che da Londra fossimo tornati con una cariola di medaglie. Una, di bronzo, salto triplo, Fabrizio Donato, un miracolo che qui i vecchi non sono stati in grado di ripetere. Fatti due conti, anche a Rio i finalisti azzurri sono stati cinque come nel 2012 a Londra, ma tradotto il tutto in punteggi il trend è impietoso: erano stati 27 ad Atene, 20 a Pechino, 17 a Londra e ora 14. Ecco perché siamo finiti al 28° posto nella graduatoria mondiale e al 13° in Europa. Nel continente, però, dove le nuove leve azzurre possono reggere il confronto, le medaglie conquistate non più tardi di un mese e mezzo fa ad Amsterdam, erano state 7: fra queste, gli ori di Tamberi nell'alto e della Grenot nei 400. È a livello mondiale che serve il passo in avanti e la maturazione dei nostri giovani.

Epperò la Francia, epperò l'Inghilterra... Qui, ora, adesso, si dovrebbe aprire un discorso diverso che svisceri una grande attenuante. Ma sarebbe la solita. E il grido resterebbe inascoltato ai massimi livelli del nostro sport. Perché l'atletica è lo sport con la esse maiuscola. Ma a scuola non c'è. Epperò chiedere in merito alla Francia e all'Inghilterra quanto questo conti. Ma tant'è. È la nostra stessa atletica a non volerne parlare perché "sa di scusa e noi di scuse non ne vogliamo". Però questa è la causa principale. E fateci caso: a scuola zero atletica, niente Giochi della Gioventù, e i genitori mandano i ragazzi al calcio, al nuoto, al volley. E in quegli sport in finale ci arriviamo.

Intanto "una generazione di atleti ha concluso il proprio percorso, atleti che non finirò mai di ringraziare e che fin qui avevano tenuto su la squadra...", dice Giomi. Atleti che ora passeranno il testimone "a una nuova leva di ragazzi e ragazze che rappresentano già il nostro futuro". E l'immagine di questa nuova generazione è Ayomide Folorunso, la sua terza frazione nella 4x400 che "ci ha fatto sognare qualcosa di più di un sesto posto finale che comunque non ottenevamo da Los Angeles '84".

Perché nel bocciare, giustamente, la spedizione azzurra, ci si dimentica qualcosa. In primis, innegabile stavolta, la sfiga. Detta così, senza giri di parole. A maggio, l'atletica italiana era accreditata di due medaglie pesanti e sicure: Alex Schwazer nella marcia 50 km; Gimbo Tamberi nell'alto. Per ragioni profondamente diverse, entrambi ko alla vigilia. Quanto ad Alessia Trost, da molti criticata per aver mancato il podio in una gara conclusa a 1.97 (non accadeva da Mosca 1980 che si vincesse con così poco), ci si dimentica il travaglio personale della giovane ragazza che per delicatezza si è cercato di tenere sotto traccia. Ma questo è il passato. Alessia d'ora in poi si allenerà con Marco Tamberi, il padre allenatore di Gimbo. Cambierà vita e, con ogni probabilità, si sposterà ad Ancona. Segno della volontà di emergere completamente. Quanto al resto, il futuro, assicurano in federazione, c'è. Ma è un futuro che richiederà anni. A Milano si allena il piccolo Berruti di nome Filippo Tortu. Fra gli allievi si racconta di giovani potenziali fuoriclasse. Servirà tempo. Ci vogliono 10 anni per fare un campione. C'è tanto da lavorare. E un po' per sperare. E poi, suvvia, presto riavremo halfshave Tamberi e l'atletica tornerà a sorridere.

E magari accelererà.

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