Controcultura

Una stagione a Giava Ecco il Rimbaud d'Oriente

Il poeta si era arruolato fra i coloniali olandesi. Giunto in Indonesia, subito sparì. Uno scrittore sulle sue tracce

di Jamie James

Dopo aver vissuto gran parte della mia vita a New York, nel 1999 mi sono trasferito a Giava. Avevo molte ragioni per farlo: volevo essere vicino al mio compagno indonesiano, che non avrebbe mai ottenuto un visto per gli Stati Uniti; credevo che là avrei avuto più tempo per scrivere; infine mi ero sempre mantenuto come giornalista di viaggio e vivere stabilmente a Giava - ero un esperto di Sud Est asiatico - avrebbe giovato alla mia professione. Però, senza dirlo a nessuno, nutrivo anche un altro programma: andare in pellegrinaggio a Salatiga, una piccola cittadina giavanese. Salatiga quasi non compare sulle guide. I turisti non avrebbero niente da vedere, a parte un antico monolito la cui iscrizione in sanscrito, dopo aver annunciato la fondazione della città (24 giugno del 750 d.C.), esorta ad essere felici. Ma sono sempre stato un devoto lettore di Rimbaud e per i fanatici come me Salatiga è un luogo sacro.

Chiunque sappia qualcosa del poeta non ignora che dopo aver pubblicato Una stagione all'inferno, uno dei capolavori della letteratura europea e una delle opere seminali del Modernismo, all'età di diciannove anni Rimbaud abbandonò la poesia. In seguito si sarebbe trasferito in Africa e sarebbe diventato un mercante d'armi e d'avorio. Prima di abbandonare «l'Europa dai vecchi parapetti», però, Rimbaud si era imbarcato in un'altra grande avventura. Nel maggio del 1876, quando aveva ventun anni, si era arruolato nell'Esercito coloniale olandese. Fu spedito a Giava, come mercenario. Ma subito (...)

(...) dopo aver raggiunto la sua guarnigione, a Salatiga, disertò e scomparve nella giungla. Non si sa niente di ciò che Rimbaud fece a Giava, a parte che fu presente a qualche appello e che una mattina scomparve. Finché, qualche mese dopo, riapparve in Francia. Nell'epistolario vi sono rare, criptiche allusioni alla breve visita giavanese, e i suoi amici diffusero qualche balla; ma a parte questo è il vuoto. Mi dissi che il viaggio perduto di Rimbaud a Giava sarebbe stato un ottimo soggetto per un romanzo, perché non c'erano fatti seccanti di cui curarsi. Potevo crearmi un Rimbaud personale e fargli fare ciò che volevo. Anche il genere del racconto potevo sceglierlo in tutta libertà. Potevo scrivere un romanzo esistenziale nello stile di Conrad, o una grande storia avventurosa come quelle di H. Rider Haggard, piena di culti misteriosi nella giungla e di tigri assassine.

Per rendere il romanzo il più realistico possibile lessi tutto ciò che potei sulla vita di Rimbaud nel 1876 e sulle condizioni di Giava in quel periodo. Ma quando mi sedetti per stendere il romanzo, la necessità di scrivere dei dialoghi mi paralizzò. La mia immaginazione si rifiutava di funzionare. Sapevo troppo. Di certo Rimbaud non era mai entrato in un bistrot per limitarsi a chiedere «un caffè, per favore». Se Rimbaud aveva ordinato un caffè, sicuramente aveva trasformato l'azione in un evento. Cercai allora di scrivere un romanzo privo di dialoghi, tentativo che lo trasformò in un elaborato rompicapo. Alla fine, compresi che avevo fallito. Rimbaud era un genio, io no.

Cosa ne sarebbe stato delle mie ricerche? Uno scrittore freelance non può permettersi il lusso della spazzatura. Decisi allora di raccogliere tutto ciò che era stato scritto a proposito della vita di Rimbaud nel 1876, lo sovrapposi alle esperienze che avrebbe potuto fare a Giava in quel periodo e lasciai che i due piani interagissero. Il risultato fu un piccolo libro costituito in pari misura di biografia e critica letteraria, Rimbaud in Java, apparso nel 2011. Fra qualche settimana sarà disponibile la fedele traduzione italiana che ne ha tratto Fabrizio Ottaviani, per le edizioni Melville.

La visita a Salatiga non apportò nuove informazioni, ma ne approfittai per compiere un piacevole giro di Giava, che trasformai in un pellegrinaggio. Mi soffermai nei posti che Rimbaud aveva visitato, ricalcandone le orme fino a dove si perdevano. Tappe obbligate furono i porti di Giacarta e Semarang, la stazione di Tuntang (dove cambiò treno) e ovviamente Salatiga.

In Indonesia, la maggior parte delle persone che acquista vecchi edifici lo fa con l'intenzione di demolirli e di costruire al loro posto una nuova abitazione; se non si fa così, il marciume e la vegetazione li radono al suolo lo stesso. Eppure le vestigia della vecchia Batavia, come la chiamavano gli olandesi, ancora resistono. Sunda Kelapa, il porto dove Rimbaud era sbarcato, è stato reso quasi inutile da un altro porto più moderno, ma serve ancora il naviglio locale. Phinisi dai colori vistosi e dal profilo vivace, rimasto immutato nei secoli, trasportano derrate alimentari e legno pregiato in tutto l'arcipelago. L'ampia piazza nel cuore della vecchia Batavia adesso si chiama piazza Fatahillah ed è un centro commerciale. Accanto al vecchio municipio, un imponente edificio che in precedenza aveva ospitato il tribunale e le prigioni, c'è un cannone portoghese di bronzo portato a Batavia nel 1641 come trofeo di guerra. La culatta del cannone è ornata da una scultura che rappresenta il pugno di un uomo con il pollice che sporge fra l'indice e il medio: un gesto che in Indonesia equivale, senza possibilità di equivoco, a un invito a fare sesso. Quando Rimbaud era qui, il cannone veniva adorato; oggi le donne che vogliono rimanere incinte siedono a cavalcioni sulla lunga canna per accrescere la loro fertilità.

Dell'architettura coloniale, sebbene si tratti di monumenti decrepiti e muffiti, Semarang conserva più di quanto non facciano la maggior parte delle città indonesiane. Non è fra i siti candidati dall'Unesco a diventare patrimonio dell'umanità, ma una passeggiata nella città vecchia in una notte nebbiosa dispensa i melanconici piaceri di un derelitto porto del Baltico. Mi fermai sotto il Gedung Batu, la pagoda vermiglia tirata su per commemorare la visita di Zheng He, l'ammiraglio cinese che siglò «amichevoli accordi» fra gli Stati di tutto il Sud Est asiatico. A sinistra del padiglione principale fa mostra di sé una grande ancora; secondo le guide turistiche locali proverrebbe dalla nave di Zheng He, ma in realtà apparteneva a un mercante della VOC vissuto secoli dopo l'ammiraglio cinese. Il giorno in cui visitai il tempio, la piazza ricoperta di piastrelle era stata occupata da una banda di skateboarders giavanesi che subito mi circondarono chiedendomi di fotografarli.

La stazione dismessa di Tuntang fu l'unico posto in cui percepii la presenza di Rimbaud. Nella cittadina di Ambarawa, in un museo della ferrovia, salii su un treno minuscolo che viaggiava su un binario a scartamento ridotto. Il trenino costeggiava un lago paludoso dove insetti dalle dorate ali di carta svolazzavano fra le canne. Da un lato, le risaie sfolgoravano nella loro luce di smeraldo; dall'altro, dei ragazzini piazzavano reti per catturare pesci non più grandi di un pollice, da friggere e mangiare tutti interi. La corsa terminava alla stazione di Tuntang, un'incantevole casetta olandese che sembrava uscita da un'illustrazione di Beatrix Potter. La stazione è completamente vuota e i muri spogli sono i soli testimoni sopravvissuti del passaggio di Rimbaud. Il culmine del pellegrinaggio rimbaudiano fu il municipio di Salatiga, un'accozzaglia di edifici coloniali imbiancati, con il tetto di tegole rosse, posto accanto a una rotatoria intasata dal traffico. È lì che si ritiene sorgessero le caserme. Presi una foto della targa di marmo che commemora la visita di Rimbaud. Proprio di fronte a essa c'è un'ornata voliera di fil di ferro, alta quattro metri, piena di cacatua addormentati. La Salatiga moderna rivela un aspetto tipico della religione indonesiana: è una città a maggioranza musulmana, sede dell'università cristiana e con la divinità indù Ganesha come mascotte municipale. Mentre ero lì, uno studente indonesiano omosessuale bighellonava accanto alla rotatoria, cercando con discrezione di rimorchiare gli automobilisti.

Rimbaud non dichiarò mai che avrebbe abbandonato la letteratura; semplicemente smise di produrne. Un termine malese (bau) compare in una lirica tarda, nelle Illuminazioni, e questo ha condotto all'ipotesi che quel verso potrebbe essere stato scritto dopo il viaggio a Giava; più probabilmente si tratta di un'anomalia, come le monete romane che affiorano inesplicabilmente in posti oscuri. È desolante dover ammettere che il poeta più originale del suo tempo non ebbe voglia di ricreare, esattamente come lo aveva conosciuto, il sontuoso tripudio sensoriale di una stagione a Giava. Nella Stagione all'inferno, Rimbaud profetizzò la tendenza che avrebbe dominato la futura cultura occidentale con la celebre sentenza «Bisogna essere assolutamente moderni». Ma forse a Giava si accorse che quel bisogno, in realtà, non è così assoluto.

Jamie James

(traduzione di Fabrizio Ottaviani)

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