Controstorie

Storia di Alejandro Cao un «soldatino» spagnolo alla corte di Kim Jong-un

Unico occidentale membro del regime, è diventato una sorta di ministro per i rapporti col mondo esterno

Andrea Cuomo

Forse è un pazzo, forse un bugiardo, probabilmente entrambe le cose. Forse è un fantoccio, forse un furbacchione, probabilmente entrambe le cose. Difficile distinguere la realtà dalla fantasia in quel regno da operetta macabra che è la Corea del Nord, dove la propaganda interna, ma anche la contropropaganda esterna, si nutrono di leggende e falsità da cartone Marvel, come un sito di fake news popolato però da ventiquattro milioni di persone incolpevoli. Ventiquattro milioni più una: Alejandro Cao de Benós de Les y Pérez, 42 anni, nato a Reus, nei pressi di Tarragona, in Catalogna, e uno dei pochi occidentali, forse l'unico, ad avere la cittadinanza nordcoreana.

Del regime di Kim Jong-un, il «maresciallo» che comanda la nazione più insensata della Terra, figlio del «caro leader» Kim Jong-il e nipote del «presidente eterno» Kim Il-sung, è una sorta di ministro degli Esteri informale, anche se Cao (lo chiameremo così per carità di patria) si definisce sul suo delirante profilo twitter (31.396 follower) Delegato Speciale del Comitato per le Relazioni Culturali con i Paesi Esteri del Governo della DPR di Korea (le maiuscole non hanno bisogno di mercato nero).

Cao è nobile, come si capisce dal nome romanzesco, ha la faccia da torero che sovrintende a un corpo precocemente imbolsito che ama rivestire di una divisa dell'esercito nordcoreano piena di medaglie guadagnate per i suoi servigi al ciccionucleare Kim, di cui si ritiene un umile soldato. È catalano ma tifa per l'Atlético Madrid, e già da questo si sarebbe dovuta comprendere la sua personalità contorta. Come Mario Brega in un film di Verdone è «communista così!», cioè con due pugni chiusi, e i placidi partiti di estrema sinistra occidentali non gli bastavano e se per questo anche la Cina è troppo moderata.

Da ragazzino fu fulminato sulla via di Pyongyang e da allora vive in Corea come un coreano e in Spagna come un infiltrato, convinto di esportare la Juche, la filosofia che è alla base della teocrazia adiposa dei Kim, che informa tutta la vita; all'occorrenza nessuno sa spiegare perché. L'articolo più importante, quello non scritto, e che è così e basta. Nel film-documentario di un altro spagnolo, il cineasta Álvaro Longoria, The Propaganda Game, è lui il vero protagonista, il ponte tra due mondi apparentemente inconciliabili. Lo si vede interrogare i nordcoreani a favore di cinepresa, chiedendo ai poveretti, gocciolanti sudore perché una parola sbagliata potrebbe costare loro la vita, di spiegare agli spettatori occidentali la loro enigmatica felicità. Lo si vede parlare dei nordcoreani usando la prima persona plurale, però servirsi di un traduttore perché evidentemente è più facile imparare ad amare la tirannide con gli occhi a mandorla che imparare il coreano. Lo si vede difendere con le unghie il regime dalle infamanti accuse che l'Occidente gli rivolge con aria offesa.

Perché Cao si è andato a infognare in un simile pasticcio? Perché è l'unica persona al mondo ad avere scelto lucidamente di vivere in un Paese-prigione da cui 24 milioni di persone vorrebbero evadere, se solo immaginassero di poterlo volere? Forse è un senso di protagonismo: Cao è diventato un personaggio, grottesco finché si vuole, ma noto in tutto il mondo. In Spagna un po' lo insultano, un po' lo compatiscono e un po' lo ammirano, e lui può facilmente godersi gli ultimi e accusare i primi di essere vittime della propaganda anticomunista del mondo capitalismo.

Nel frattempo Cao si è organizzato per fare da tour operator del suo paese adottivo: qualunque giornalista voglia visitare la Corea del Nord, il Paese del mistero, deve ricorrere ai suoi uffici e sopportare la sua ingombrante presenza nell'itinerario prestabilito e buono per tutti, che presenta una versione edulcorata e quasi-felice della Corea di Kim Jong-un. Ecco parchi acquatici in cui bambini sguazzano felici come in un Hydromania comunista, e si pretende anche di far credere che sia di Kim l'idea di sostituire i gradini di cui erano fatti gli scivoli con una più comoda superficie liscia (ma dài). Ecco negozi che sembrano quasi occidentali ma poi si scopre che sono aperti solo a chi può pagare con valute forti, e chi ne possiede? Ecco la zona di Panmunjon, quella al confine con la Corea del Sud, l'area più militarizzata del mondo, dove i soldati scherzano con le donne dai vestiti multicolori e sembra quasi che tutto sia uno scenario per un film. In tutti questi luoghi Cao è lo stesso pupazzo felice, un Gabibbo comunista e anticapitalista, un utile idiota al servizio del regime a cui non pare vero di avere un ambasciatore volontario che si accontenta di qualche medaglia di seconda fascia da appuntare sulla giacca.

Su twitter Cao (@DPKR_CAODEBENOS) è scatenato. Attacca Trump («non si azzarderà a superare la linea rossa, che scatenerebbe una guerra nucleare»), tutto l'Occidente («chiunque attaccasse la Corea del Nord supporrebbe la fine del mondo come lo conosciamo»), Wikipedia («non è libera. L'informazione si manipola regolarmente a seconda degli interessi dell'autore»). Ribatte a chi gli scrive, gli fa domande, cerca di portare dalla sua parte chi lo interpella e accusa chi lo insulta. Un anno fa fu anche arrestato in Spagna nell'ambito di un'operazione contro un traffico internazionale di armi, ma le armi che preferisce sono le parole.

Perché la guerra contro il capitalismo passa anche per le piroette di un toreador nobile.

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