Milano

La strage di Samarate, ergastolo confermato Maja: "Gesù mi grazi"

Nicolò, il figlio sopravvissuto, tornato in ospedale: «Una sentenza dolorosa, ma giusta. Sono sereno»

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Nicolò Maja avrebbe voluto, come ha sempre fatto, essere in aula per il processo d'Appello al padre Alessandro, che la notte fra il 3 e il 4 maggio 2022 ha massacrato la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia di 16 anni e ha colpito quasi a morte anche il primogenito. Ma il ragazzo, unico sopravvissuto alla strage di Samarate vicino a Varese, era in ospedale per l'ennesimo intervento chirurgico per le conseguenze delle martellate ricevute (come le altre vittime) mentre dormiva. Il 23enne ha riportato gravi danni dall'aggressione e vive con una invalidità dell'80 per cento. Ieri la Corte d'Assise d'appello, presieduta dal giudice Ivana Caputo, ha confermato l'ergastolo con 18 mesi di isolamento diurno già inflitto in primo grado dal Tribunale di Busto Arsizio. Così come chiesto dal procuratore generale Francesca Nanni, che ha voluto rappresentare in prima persona l'accusa, e dall'avvocato di parte civile Stefano Bettinelli, che assiste i familiari. Ieri in aula c'era Giulio, nonno di Nicolò e padre di Stefania.

Anche Alessandro Maja, ex interior designer di 58 anni, era presente all'udienza. Il movente della strage resta un mistero. L'uomo è stato giudicato capace di intendere e volere dalla perizia del Tribunale, anche se affetto da «disturbo dell'adattamento a situazioni esistenziali in soggetto con aspetti narcisistici». L'avvocato della famiglia ha sottolineato: «Ha agito a mente fredda, mentre i suoi familiari dormivano. Nicolò si è salvato per caso, dopo essere stato colpito è stato lasciato nel letto e sarebbe probabilmente morto se alle 5 del mattino non fossero arrivati i soccorritori. Dopo l'aggressione è rimasto in ospedale per sei mesi». La difesa, rappresentata dall'avvocato Giulio Colombo, ha contestato i risultati della perizia e ha parlato di «delirio» di Maja, che aveva il terrore di cadere in rovina, quando invece la famiglia aveva una situazione economica più che rassicurante. «Maja era in crisi per problemi di lavoro che però esistevano solo nella sua testa. È arrivato a scrivere una pec a un cliente, dichiarando di aver fatto un errore che l'avrebbe portato alla rovina. E tormentava il proprio avvocato per far fronte ai presunti danni che aveva causato. Ma non c'era stata alcuna contestazione sul lavoro, tanto che l'avvocato arrivò a consigliargli di andare da uno psicoterapeuta». I giudici hanno deciso in poco più di un'ora di camera di consiglio. «È una sentenza giusta, anche se comunque dolorosa, ma sono sereno», ha detto Nicolò all'avvocato. Il nonno ha aggiunto: «La giustizia qualche volta c'è, la legge c'è ed è stata rispettata. Non credo al suo pentimento, l'ha fatto per trarre vantaggio. Il perdono? Ci mancherebbe altro... Anche se ho avuto pietà a vederlo». Maja aveva fatto dichiarazioni spontanee: «Ho cancellato la mia famiglia a causa di un mio soffrire emotivo, restando solo. Mi aspetto una pena, la più alta, sperando nella clemenza.

Confido nel perdono di Gesù determinato dal mio pentimento».

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