La sua inattualità senza tempo ha messo «Kaputt» i detrattori

«Noi non stiamo né con Dalì né con De Sade, noi stiamo con Manzoni. E sia dal punto di vista dell’arte che da quello dell’umana pietà, inseparabili, a Malaparte di questa sua ultima impresa, non ci sentiamo d’essergli grati». Non era Filippo La Porta a scrivere questa condanna edificante, ma Emilio Cecchi, un intellettuale di tutto rispetto, a proposito de La pelle.
Il problema è che a grandi scrittori italiani corrispondono sempre grandi imbecilli di critici loro contemporanei, e spesso neppure quelli. Qualcuno se ne accorge qualche decennio dopo, quando riconoscere non costa nulla, per poi finire non letti due volte dalla noia e dal biografismo scolastico dei professori, dove un genio come Leopardi è ancora il gobbo brutto e sfigato che per questo scriveva A Silvia (e si spari con il napalm anche sulla trasmissione Il più grande condotta da Francesco Facchinetti, dove viene fuori tutta l’eredità del provincialismo scolastico perfino degli intellettuali ospiti, e vorrei dire a Giampiero Mughini, per esempio, che Leopardi, se anche fosse stato George Clooney, sarebbe stato Leopardi, mentre George Clooney, se non avesse avuto la faccia di George Clooney, non avrebbe fatto niente, tantomeno si sarebbe fatto la Canalis).
Così i romanzi e i libri di Curzio Malaparte, la cui opera, ancora oggi, anziché occupare un posto d’onore tra gli scrittori italiani, è confinata in una nicchia di stravaganza e ribellismo politico-elzeviristico, e questo quando va bene. Quando va male Asor Rosa lo antologizza scambiandolo per Curzio Maltese. Ci voleva non un critico, bensì uno storico controcorrente come Giordano Bruno Guerri (se volete saperne di più, leggete il suo bellissimo L’arcitaliano), per ridare a Malaparte il posto che meritava. Analogamente a Gabriele d’Annunzio (e anche, per le stesse ragioni rovescio della stessa medaglia, allo stesso Leopardi), paga lo scotto di una vita avventurosa e inclassificabile, affossato da una critica che non ha ancora imparato a essere Contro Sainte-Beuve (mentre Curzio, a proposito, fu un proustiano di prima fila e fin dalla prima ora negli anni Dieci, e molto tempo non perduto dopo rese omaggio alla Recherche intitolando il primo capitolo di Kaputt proprio «La côté des Guermantes»).
Come accadde a Gadda, la critica trombona tutt’al più lo inseriva nella categoria della «bella prosa», e questo mentre Curzio, l’uomo in rivolta, l’avanguardista indomabile, imperversava in mezza Europa, avendo scelto Parigi come patria intellettuale, la rivoluzione surrealista come patria dell’immaginario, e lo Zarathustra di Nietzsche come padre di ribellione antireligiosa.
Ma cosa, nonostante la bellezza e la forza della sua opera, da Kaputt a La pelle all’eversivo Tecnica del colpo di Stato (perseguitato tanto dai comunisti quanto dai fascisti e dai nazisti), non si perdona a Curzio, quando perfino scrittorini come Cassola o Pratolini o Siciliano hanno un altarino e un cero nel pantheon della letteratura italiana? Mentre all’università ci fanno studiare Il mio Carso di Scipio Slataper neppure fosse Céline? (e, tra l’altro, mettiamolo a confronto con Viva Caporetto!, stampato nel 1921 e ritirato dalle autorità nel 1921 e ristampato da Curzio ancora nel 1921, stavolta intitolandolo La rivolta dei santi maledetti, e nuovamente sequestrato e nuovamente ristampato nel 1923 e nuovamente sequestrato e... ah, che tempi!).
Ma chi ha paura di Curzio Malaparte? Smascheratore della profonda ipocrisia della casta intellettuale e politica italiana ed europea, ancora oggi non gli si perdona di non essere incasellabile nei buoni o nei cattivi, negli uomini o no, né di aver sfatato molti miti che, pur tenuti su con i fili della casta dei mediocristi sociologici, devono restare intoccabili (ecco perché fa comodo al professor Asor Rosa confonderlo con Curzio Maltese). A cominciare dai cosiddetti scrittori «antifascisti», quando in realtà, durante il fascismo, di veri antifascisti non ce n’era mezzo (senza risparmiare se stesso: «Anch’io fui, naturalmente, fascista, poiché allora era fascista chiunque ora, per le medesime ragioni, è antifascista: solo che io ero fascista con la “mentalità protestante”», e infatti pagò molto più, sotto il fascismo, di tanti antifascisti riciclati nell’antifascismo una volta caduto il fascismo).
Non si salva Alberto Moravia (Gli indifferenti non è mai stato un romanzo antifascista, ma il romanzo della «decadenza del fascismo», non per altro fu pubblicato in pieno fascismo), né «il fascistissimo» Elio Vittorini («tant’è vero che Conversazione in Sicilia, apparso in Italia durante la guerra, fu poi edito e tradotto in Belgio da una casa editrice che i nazisti avevano creato in Belgio per far propaganda nazista»), né Corrado Alvaro («fu detto scrittore antifascista senza aver mai scritto un rigo antifascista»).

E non si perdonerà mai a Curzio di essere stato uno scrittore libero e ingovernabile, peccato imperdonabile tra «i bacchettoni, i barbogi, i parrucconi di tutta Italia», questa Italia barbara perché incurabilmente conformista.

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