Cultura e Spettacoli

Il superbebè che ci insegna a pensare

«Glifo» di Percival Everett è la storia di un neonato dal quoziente intellettivo mostruoso alle prese con la malvagità degli adulti

Il superbebè che ci insegna a pensare

È un tipo strano. Non dorme. Non parla. Più che camminare, sgambetta, per non perdere l’equilibrio. Non fa che leggere e comunica, quando non ne può fare a meno, tramite dei biglietti. Vuol bene alla mamma («Mammina»), certo, ma molto meno al papà («Cicciobombo»), soprattutto da quando ha scoperto che se l’intende con una specializzanda dell’università dove il signor Townsend insegna non si sa bene che cosa (però glissa su un ammiratore della signora e dei suoi quadri). Quando ha difficoltà a defecare, risolve il problema semplicemente pensando a Lacan. Ha un quoziente intellettivo pressoché inimmaginabile: 475. È nero.
Ma soprattutto è un poppante prodigio (anzi, lo era, perché il suo libro - vogliamo chiamarlo romanzo di formazione? - lo scrive intorno ai quattro anni). Il piccolo Ralph narra se stesso, la propria normalissima mostruosità. «Volevo, voglio ancora e spero di continuare a volere che il mio cervello rallenti un poco. Non posso nemmeno dire di essere intelligente, ma solo che il mio cervello è costantemente iperattivo». La sua testolina spazia dalla filosofia del linguaggio all’epistemologia, da Husserl a Saussure, da Wittgenstein alle circonvoluzioni della memoria proustiana. «È l’anello mancante tra la fase immaginaria e quella simbolica», esulta la psicologa che vuol mettere le mani su quel pezzo pregiato. E il saggio Ralph, a posteriori, ci ammonisce: «Dite alle vostre idee di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Non permettete alle vostre idee di giocare in mezzo alla strada. Non date alle vostre idee giocattoli con pezzi troppo piccoli: potrebbero infilarseli in bocca e soffocare».
Come ha ragione! Se impareremo a ragionare con la nostra testa, almeno sapremo a chi dare un bel pezzo di colpa, quando le cose non andranno per il verso giusto. «Le giraffe hanno il collo lungo e le tartarughe hanno il carapace, ma gli esseri umani hanno l’avarizia e la vanità e la religione. La morte avviene per queste precise ragioni».
Caro, piccolo Ralph che ci osservi dall’interno del tuo libro che è un po’ significato e un po’ significante, abbi pietà di noi adulti. Abbi pietà anche del signor Percival Everett che è il tuo dottor Watson, il tuo Vasari, il Narratore della tua Recherche, sintetizzata magistralmente in Glifo (Nutrimenti, pagg. 222, euro 15, traduzione - ottima - di Marco Rossari), opera prima e unica di un genio in pannolini. I grandi non ti capiscono, ti trattano come un fenomeno da baraccone. Tutti tranne la mamma (la mamma è sempre la mamma, anche per te...). Ti rapiscono e ti portano in posti strani, qualcuno vuole addirittura trasformarti in un agente segreto sfruttando la tua infallibile memoria fotografica. Ti sbattono in galera. Non ti danno da mangiare. Un prete tenta di molestarti e poi per salvare la ghirba gira la frittata dandoti dell’indemoniato. Il presidente degli Stati Uniti, fra un’orgia e l’altra, s’interessa al tuo caso, ma non per riportarti a casa... Insomma, un inferno.
Per fortuna il signor Everett ha raccolto le tue memorie. Anche lui è un po’ nero, come te. Anche lui pensa che Byron sia un sopravvalutato, e ha un concetto di genialità che prefigura l’happy end: «Genio significa trovare un modo per tornare all’inizio dove le verità sono sincere e oneste e forse addirittura pure». Anche lui considera Roland Barthes (il quale, sia detto per inciso, viene respinto con perdite quando tenta di portarsi a letto Mammina) soltanto un francese pieno di sé. «Gli esseri umani hanno inventato il linguaggio. Così dicono gli ingenui. Il linguaggio ha inventato gli esseri umani. Così dicono i cinici». Ce n’è di roba in quella testolina, vero, signor Everett?
Caro, piccolo Ralph, vien voglia di prenderti in braccio (ma prometti di non pensare a Lacan... ) quando dici: «I verbi all’infinito non hanno casa. I verbi in forma finita girano in branchi come cani randagi». Tu che non spiccichi una parola che è una, sei il nostro piccolo oracolo silente: «Io non do informazioni sulla società. Non fornisco alcuna verità sulla cultura. Ho da offrire solo il numero di parole che ci sono qui nel testo e la frequenza e l’ordine in cui sono scritte, insieme ai segni che governano partenze, fermate e pause». Il signor Everett ha fatto bene a épater le bourgeois (pardon, anzi, scusate, il francese è sempre un po’ invadente) spacciandoti per il protagonista di una fiction (anche l’inglese è invadente...) con personaggi che paiono usciti da un film alla Quentin Tarantino o alla Leslie Nielsen. Ha fatto bene perché sa, come tu dici, che: «Il mondo è tutto ciò che è possibile all’interno di un particolare spazio narrativo».
Suona come il principio di falsificazione di Popper.

Popper? Roba da poppanti.

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