Controcultura

"Tanto complicato quanto devoto alla letteratura"

Vincenzo Mantovani è "il traduttore" di tanti grandi americani del Novecento.

"Tanto complicato quanto devoto alla letteratura"

Vincenzo Mantovani è «il traduttore» di tanti grandi americani del Novecento, da Hemingway a Kurt Vonnegut, di cui sta ritraducendo l'intera opera per Bompiani, dal poderoso volume di Tutti i racconti in poi: a quasi 88 anni si è appena occupato della graphic novel tratta da Mattatoio n. 5, che uscirà a inizio novembre, in occasione del centenario della nascita dell'autore. E Mantovani è la «penna italiana» di Philip Roth: di lui ha tradotto una dozzina di libri, da Pastorale americana a Il complotto contro l'America, passando per La macchia umana, L'animale morente, Everyman... Però, a differenza di Gore Vidal e Richard Ford («con lui c'è una vera amicizia» dice), non lo ha mai incontrato. «Ho rifiutato: ho sempre avuto timore di incontrare gli scrittori, per paura di essere deluso dalla persona...».

Non lo ha incontrato fisicamente, però lo ha incontrato per anni?

«Direi di sì. Ci siamo frequentati per molti anni, fino alla rottura con Einaudi. E, vivendo praticamente insieme a lui, in questo appartamento fra noi due, ho imparato a conoscerlo molto bene».

Che cosa per esempio?

«Banalmente: era un grande scrittore. Umanamente, era un tipo di uomo problematico e difficile per tutti, e per sé in primo luogo. E ho imparato parecchio».

C'era una procedura da seguire?

«Einaudi aveva rilevato tutto Roth e voleva tradurlo, così mi offrì un pacchetto. E per molti anni non ho fatto altro, fino a che ho detto: Non ne posso più. Forse la sua complicazione di uomo è emersa anche lì, alla fine ero un po' spossato. Comunque io dicevo soltanto: Ho finito il libro, eccolo qui».

E basta?

«C'era una intermediaria italoamericana, una amica di Roth, che leggeva le traduzioni e alla quale, ogni tanto, ho chiesto qualche spiegazione. Lei qualche volta ha protestato per una frase...».

Come siete andati così d'accordo?

«Perché non ci siamo mai frequentati, è l'unica spiegazione. L'unica cosa che ho visto, una volta, è stata la sua calligrafia: mi mandarono delle pagine di testo su cui aveva fatto dei cambiamenti a mano, correzioni minime...».

La cosa più difficile con Roth?

«Il suo stile. Era uno che ci pensava venti volte prima di scrivere una parola: e allora, se devo seguirlo su questa strada, che è l'unico modo per tradurlo, devo mettere i piedi nelle sue impronte, un passo dopo l'altro. Un lavoro massiccio, pesante, perché richiede uno sforzo assoluto per non perderlo di vista».

Il libro più complicato?

«Il grande romanzo americano. Mi ha fatto impazzire, è tutto sul baseball: per trovare i termini giusti...».

Era maniacale come appare?

«Lo era come uno che si vota all'arte e al romanzo, che dedica a quella attività tutto. Certo, ora mi dispiace di non averlo incontrato. A certe cose si arriva troppo tardi...

».

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