Cultura e Spettacoli

Il tenero cantore della magica Praga

«Se dite che i versi sono anche canto/ - e si dice -,/ tutta la vita ho cantato»: questi versi del 1967 potrebbero fare da epigrafe sulla tomba del poeta ceco Jaroslav Seifert (Praga 1901-1986). Per lui la poesia era canto: canto civile, canto di libertà e canto d’amore. Ed è per dovere d’amore che Seifert ha scritto poesie per sessant’anni.
Nato in un sobborgo operaio della Praga comunista, crebbe nel mito della Rivoluzione d’Ottobre, e aderì al Partito comunista, mettendo i suoi ideali al servizio della stampa di partito come giornalista. All’ideologia sono dedicate anche le sue prime raccolte, dove spicca l’amore per la sua città (nessuno ha cantato come Seifert la magica Praga, «bella venditrice di fiori, di oro e di ampolle») e per il suo Paese «di dolci fiumi e donne appassionate», ma anche vittima di guerre e invasioni.
Il suo primo viaggio a Parigi, nel ’23, amplia i suoi orizzonti letterari e le sue conoscenze e, tornato in patria, fonda un movimento d’avanguardia ispirato ad Apollinaire. Dopo altri viaggi - in Italia nel ’24, nell’Unione Sovietica e in diversi Paesi europei dal ’25 al ’28 - sfronda le sue tematiche proletarie, affina i suoi gusti e sviluppa un atteggiamento critico verso il comunismo. Nel ’29 si rifiuta di seguire la linea dettata da Mosca e viene espulso dal Partito. Dopo qualche anno di riflessione, in cui matura un nuovo stile, nel 1933 pubblica La mela dal grembo, e tre anni dopo La mano di Venere, in cui cerca ispirazione e rinnovamento nella tradizione poetica ceca e nella vita di tutti i giorni. Nel 1938, dopo il proditorio accordo di Monaco che porta allo smembramento della Cecoslovacchia, scrive Spegnete le luci, il suo testo più famoso.
Ma Seifert resta convinto che il poeta non possa rinunciare al suo impegno civile, perché «uno scrittore che tace mente». Se nel ’45 celebra l’insurrezione di Praga contro il nazismo, nel ’56 condanna i crimini dello stalinismo e nel ’68 l’intervento militare sovietico in Cecoslovacchia. Perché «un poeta deve sempre dire di più/ di ciò che sta nascosto nel rombo della parola». Ormai è il vate nazionale, simbolo della libertà. Fioccano i riconoscimenti, come il Premio di Stato. Viene eletto presidente dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi, ma si dimette per le ingerenze sovietiche. I suoi libri, vietati, circolano in edizioni clandestine.
Nell’84 è il primo poeta ceco a essere incoronato con il Premio Nobel.

Negli ultimi anni non sarà più il tenero cantore di Praga, ma, come scrive il suo traduttore Sergio Corduas, il poeta della meditazione esistenziale sulla morte e sulla drammaticità del reale.

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