Ma il terrorismo non è civiltà

Vittorio Mathieu

Le opinioni espresse da Joseph Ratzinger e da Marcello Pera non coincidono più così strettamente come quando il cardinale non era ancora Papa. Ma la divergenza non è allarmante. Come pontefice, Ratzinger ha assunto un atteggiamento più pastorale e non vuole pronunziare scomuniche. Gli è facile, del resto, distinguere tra Islam e terrorismo. C’è una civiltà dell’Islam (anzi, come vedremo, ce ne sono molte), ma non c’è una civiltà del terrorismo; quindi la guerra al terrorismo non è uno scontro di civiltà.
La pluralità delle civiltà islamiche permette di salvare anche la posizione di Calderoli, contro cui è ridicolo stracciarsi (metaforicamente) le vesti. L’Islam non è una civiltà che abbia acquisito qualcosa da altre: è una religione, che ha assoggettato a sé parecchie civiltà del Medio Oriente, lasciando fuori (purtroppo) la civiltà romana del diritto.
Una (modesta) civiltà araba esisteva anche prima di Maometto, poi ha aggiunto ben poco alle civiltà degli enormi territori conquistati dai primi califfi. Ha dato straordinari frutti in Spagna (moschea di Granada) ed è rimasta grazie a qualche cupola, a qualche arco, a qualche motivo ornamentale (onde il termine «arabesco»).
Gli invasori, in compenso, hanno assimilato (e trasmesso a noi, grazie anche a traduttori ebrei), tesori delle civiltà che assoggettavano. I numeri arabi sono indiani, il valore di posizione delle cifre è babilonese, la matematica pura è greca (anche se «algoritmo» - o macchina indifferentemente mentale o materiale - viene dal nome di un arabo). La saggezza amministrativa è siriana (Damasco), la teologia (semplificata) è biblica.
La guerra contro l’Islam non è, dunque, uno scontro di civiltà; e da parte nostra è sempre stata difensiva, al più di «riconquista». E tale è tuttora, anche se talvolta la miglior difesa sarebbe l’attacco. È vero che, nella stragrande maggioranza, i musulmani preferirebbero il «dialogo» alla guerra; ma, appunto perché moderati, non hanno voce in capitolo. Islamica è la guerra santa; che può avere, senza dubbio, modalità molto diverse dalle bombe, ma che guerra rimane, perché fin dal Corano è la distruzione, comunque ottenuta, degli infedeli quella che mostra che Allah è grande. Quando poi l’infedele sia così «sofisticato» che l’Islam possa limitarsi a offrirgli la corda con cui impiccarsi, non vi sarà fondamentalista islamico che non sia d’accordo; ma solo a questo patto. Perciò anche chi non vuol parlare di scontro di civiltà può benissimo dar ragione a Marcello Pera, che raccomanda di non dimenticare che siamo in guerra. È la stessa raccomandazione, del resto, che ci viene da un musulmano illuminato come Magdi Allam, di cui «Tempi» del 28 luglio riporta una conversazione (chiamata appunto così, conversazione, e non «dialogo»: parola che dovrebbe riuscire sospetta).
Appena si abbandonino le frasi fatte e vuoti luoghi comuni, non è difficile intendersi. Certo il termine «guerra», su cui insiste Pera con tanti altri, va inteso in un senso molto lontano da quello della Prima guerra mondiale, in cui la stragrande maggioranza dei caduti si accatastava sulla linea del fronte.
Un fronte oggi non c’è, la guerra è omnipervasiva. Per questo, anche da parte nostra, le bombe vanno usate con parsimonia. La loro efficacia è scarsa, da una parte e dall’altra. Anche le bombe dei terroristi hanno un effetto fisico limitato (e per questo tanto più doloroso per chi ne è colpito).


L’effetto veramente devastante che possono ottenere, è il nostro disarmo morale.

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