Non cè dubbio, come avverte il titolo stesso della bella mostra curata da Daniela Fonti al MART di Rovereto, che Ernesto Michaelles, in arte Thayaht, sia stato un «futurista irregolare», atipico, fuori degli schemi. Tra laltro, è un po tutta la concezione del Futurismo allindomani della fine della prima guerra mondiale che mostra unapertura a ventaglio verso più direzioni concettuali e progettuali proprio nella ricerca di ulteriori possibilità operative rispetto a pittura e scultura, cioè che permettessero allarte di «entrare pienamente nella vita di tutti i giorni», come aveva propugnato F.T. Marinetti. Ma se, da una parte, questo può essere un punto di forza, dallaltra ha creato per lungo tempo (e crea tuttora) una certa confusione in merito allidentificazione di uno stile che possa dirsi futurista.
Se, infatti, guardiamo al lavoro degli anni Venti di Depero, e poi a Prampolini, a Tato, a Dottori, a Fillia e, infine, appunto a Thayaht (cui andrebbe accostato il fratello Ruggero Michaelles, detto RAM) risulta evidente come, in sostanza, ognuno andasse per la sua strada e che, di fatto, il Futurismo che li univa fosse essenzialmente una «linea di pensiero», piuttosto che una «prassi operativa». Li univa, si dice, quellidea della «rottura con il passato», con la fissità delle cose, dunque sempre alla ricerca di un dinamismo vitale che però, spesso, non ritroviamo nella ferrea staticità delle loro opere, proprio a partire da Depero. In realtà, e proprio il lavoro di Thayaht ci aiuta a capirlo (specialmente nel volume, notevole, di approfondimento sulla Vita, scritti, carteggi, a cura di Alessandra Scappini che si abbina al catalogo della mostra), lirregolarità di cui si parla è sostanziale e connaturata a tutta una generazione di futuristi, appunto quelli del «dopo Boccioni», che hanno di fatto posto in essere la veicolazione del Futurismo nella vita di tutti i giorni, uscendo da musei, accademie e gallerie darte ed usando la città, le sue strade, le sue case ed i suoi abitanti come ambito di sperimentazione permanente.
Così se i futuristi della prima generazione (definiti eroici soprattutto per le loro estrazioni politiche di sinistra) furono essenzialmente poeti, pittori e scultori, quelli che vennero dopo (a loro volta definiti indistintamente «fascisti») furono poeti, pittori e scultori ma anche grafici, arredatori, architetti, creatori di moda, decoratori in genere, tipografi, ecc. Dunque questa patente dirregolarità, che ha un po il sapore dei «paria del futurismo», alla luce del profondo esame critico che esce da questapproccio a 360 gradi che ci offrono la mostra di Daniela Fonti e lo studio di Alessandra Scappini, diviene invece il «carattere distintivo» non solo per Thayaht stesso, ma anche per unintera generazione di artisti che, per convenzione, definiremo «futuristi», anche se poi sono tutti nipotini di William Morris e delle Arts & Crafts. In questottica, Thayaht è già futurista allinizio degli anni Venti, quando progetta la famosa «Tuta», sebbene la sua adesione ufficiale al Futurismo dati non prima del 1929: ma certo aveva già visto Boccioni & Co. nella mostra alla Libreria Gonnelli di Firenze nel 1913. Ed è già futurista proprio perché si muove in quellambito di invenzione e progettazione «ulteriore» che va a superare la fissità accademica delle belle arti, ed anche perché è sulla linea di analoghe ricerche futuriste, come quelle di Balla sul «vestito antineutrale», del 1914. Ma, così come e forse più di altri futuristi (e ricordo ancora una volta su tutti Depero) con lavvio dei ruggenti anni Venti anche Thayaht percorre quella strada parallela allArt Déco, cioè impegnandosi a fondo nellornamento e nella moda, facendo sue le tinte piatte, i colori elettrici, la linea di contorno. Di questo periodo è anche, improvviso, lavvicinamento alla scultura che, forse più di tutte le tecniche, lo connota di quellaura futurista che gli va un po stretta.
E dunque, come si diceva, è del 1929 la sua consacrazione a futurista (o futur-fascista come potrebbe ancoroggi sottolineare qualche critico fin troppo zelante) allorquando realizza una sintesi plastica della testa del duce, sintesi talmente efficace che lo stesso Mussolini, ricevutala in dono da Marinetti, «premia» con una scritta autografa in calce ad una riproduzione fotografica: «Questo è Benito Mussolini così come piace a Benito Mussolini». Un colpo pubblicitario senza precedenti per il Futurismo che da qualche anno era in affanno nei confronti del Novecento di Margherita Sarfatti: affanno di commesse pubbliche, sintende. Del resto, proprio per questo, sono anni cruciali per il rilancio del Futurismo (Marinetti e Somenzi stanno lanciando lAeropittura) e questimprovvisa notorietà di Thayaht diviene funzionale a questo scopo: alla Biennale del 1930 la sala futurista vede uno schieramento di sue sculture e, due anni dopo, Marinetti gli dedica una monografia con uno scritto anche di Maraini. E sono appunto di questi anni, dal 1930 al 1935, le sculture più belle e spettacolari di Thayaht che giunge a sintesi plastico-dinamiche insuperate cui fa da contraltare solo lopera plastica di Renato Di Bosso.
Da ricordare Il Timoniere, La Vittoria dellAria, Tuffo, Liberazione della terra, ed il Ritratto di Marinetti. Sono le opere che ne hanno definito una precisa riconoscibilità, lo stile Thayaht.
LA MOSTRA
Thayaht futurista irregolare
MART, Rovereto, Corso Battini, 43. Fino all11 settembre.