Roma

Tor di Quinto, la chiusura dell’anello ferroviario resta un’utopia

È grazie all’immobilismo del Comune che è potuta sorgere la baraccopoli dei romeni

«Ora le promesse di Veltroni muovono i treni», titolava il Giornale lo scorso 30 gennaio 2006. Una frase piena di scetticismo e ora tristemente profetica. Il giorno prima in Campidoglio, il sindaco e l’allora amministratore delegato di Rfi-Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, avevano annunciato - per l’ennesima volta negli ultimi 60 anni - la chiusura dell’anello ferroviario nel tratto mancante, quello a nord di Roma. Proprio nella zona di Tor Di Quinto dove martedì sera Giovanna Reggiani è stata aggredita e uccisa dal romeno Nicolae Mailat.
Un progetto ambizioso, che prevedeva lo spostamento delle circa 80 aziende artigiane che tuttora operano in via Camposampiero - cioè lungo il tracciato e a due passi dal viottolo maledetto - in un’area di Prima Porta individuata dal Comune nel nuovo Prg. «Il trasferimento dovrebbe avvenire tra un paio d’anni», vaticinò l’assessore all’Urbanistica, Roberto Morassut. Poi si sarebbe proceduto - termine previsto il 2010 - con la costruzione della nuova stazione di Tor di Quinto, che nelle intenzioni avrebbe dovuto costituire in una «logica intermodale» l’incrocio tra l’anello, le tratte ferroviarie di Roma Nord e addirittura la linea C.
Quasi due anni dopo, il trasferimento dell’insediamento artigiano di via Camposampiero e la connessa riqualificazione dell’area della stazione sono rimasti solo sulle cartine e sui grafici esposti nella Sala della Bandiere dalla coppia Veltroni-Moretti in quella fredda domenica di gennaio. «Lì è ancora tutto come prima - commenta il capogruppo regionale della Dc per le Autonomie, Fabio Desideri -. Anzi: peggio, alla luce di quanto è accaduto». In attesa del «centro intermodale», accanto ai binari è sorta la baraccopoli rom rifugio di Mailat. Un campo abusivo simile a quelli cresciuti a Monte Antenne (sulla ferrovia concessa Roma-Viterbo) e Salone (sulla Fr2 Roma Tiburtina-Guidonia-Tivoli), due fermate chiuse «causa nomadi» ormai da molti anni.
Del resto quella dell’anello ferroviario è una delle storie infinite che riguardano la mobilità capitolina, la prova regina del fallimento della «cura del ferro». Una storia cominciata alla fine dell’800 con il primo progetto di riassetto ferroviario del nodo romano e che arriva alla metà degli anni ’50, con la costruzione dello Stadio Olimpico lungo il tragitto e lo stop definitivo alla cintura nord. Nella parte esterna, quella di Tor Di Quinto e della Valle dell’Inferno, ecco i capannoni abusivi. Dopo decenni di silenzio, la «compagnia dell’anello» capitolina torna in auge per i mondiali del ’90, con la costruzione delle fermate di Farneto e Vigna Clara: costate 90 miliardi di lire rimangono attive per 8 giorni. Prima degli ultimi proclami veltroniani ci furono quelli rutelliani di inizio primo mandato (1993). Lunedì, infine, dovrebbero partire i lavori finanziati dalla Regione per realizzare nella stazione di Tor di Quinto un nuovo fabbricato viaggiatori, un parcheggio di 200 posti auto e un’area di scambio Cotral-Atac. Ma la chiusura dell’anello, in tutti i sensi, era un’altra cosa.

Una tristissima utopia.

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