Cultura e Spettacoli

La tragedia delle foibe non nacque dalla rabbia Fu studiata a tavolino

Foiba. Una parola che fa paura e scatena reazioni forti, viscerali. C’è chi vuole rimuovere il ricordo dell’atrocità, chi vuole che la giustizia sia ristabilita, chi vede la questione essenzialmente nei termini dell’odio etnico, chi riflette soprattutto sui connotati politici dello sterminio degli italiani in Istria.
Ecco perché su un tema verso il quale la rimozione è stata la scelta più diffusa e molto hanno pesato i preconcetti ideologici, diventa fondamentale un libro come quello ricavato dagli scritti inediti di Elio Apih e che arriverà in libreria domani, Le foibe giuliane. Note e documenti (Libera editrice Goriziana, pagg. 180, euro 18, con una nota di Marina Cattaruzza). Apih (1922-2005) è stato, con Carlo Schiffrer, uno dei maggiori esponenti della storiografia triestina. Ha scritto numerosi libri sulla storia della sua città, della Venezia Giulia e del Friuli dal ’700 al ’900 e, soprattutto, si è occupato della resistenza jugoslava e delle foibe. Proprio a questo titolo, dal ’96 al 2000, è stato membro della Commissione storico-culturale italo-slovena voluta dai due governi per chiarire i rapporti storici tra sloveni e italiani.
Ecco perché questi suoi scritti (a cui verrà dedicato uno spazio speciale all’interno del festival «èStoria» che si terrà a Gorizia dal 21 al 23 maggio) sono particolarmente importanti nella costruzione di una storiografia seria e completa su uno dei temi più controversi relativi alla Seconda guerra mondiale e all’immediato Dopoguerra. L’analisi di Apih spazia dalle profonde radici culturali dell’infoibamento - radici mitiche di odio e cancellazione, quelle che si intravedono nella macabra e misticheggiante abitudine di buttare nelle grotte degli eccidi anche un cane nero che impedisse la fuga dell’anima delle vittime - all’analisi dei moventi precisi che in due diverse fasi, tra l’8 settembre ’43 e il ’45, portarono all’eliminazione di moltissimi italiani.
Uno dei dati più evidenti dell’analisi di questo studioso che ha consultato decine di documenti e raccolto molte testimonianze (lui stesso si trovava a Pisino durante la prima caccia agli italiani), è la presenza di modalità e pratiche, nella strage, tipiche dei «rivoluzionari organizzati», molto lontane da quelle delle insurrezioni popolari contro i «padroni» o gli «occupanti». I contadini sloveni o croati difficilmente approfittarono della situazione per linciare gli italiani, civili o militari che fossero. Quella che fu portata avanti fu essenzialmente, secondo Apih, un’azione politica coordinata, frutto della capacità di esperti del terrore appositamente addestrati. «Esigenza comune alle uccisioni plurime - spiega - è infatti l’organizzazione di un sistema di trasporti, in grado di convogliare le vittime... La “corriera della morte” che partì da Pisino il 19 settembre aveva i vetri imbiancati da calce per impedire che qualcuno dall’esterno riconoscesse i prigionieri... anche gli ufficiali polacchi furono inviati nel bosco di Katyn con corriere dai vetri schermati...». Anche la prassi di legare le vittime fra loro con il filo di ferro veniva da una lunga tradizione paramilitare.
Insomma, niente di «spontaneo», semmai metodi appresi da quegli istruttori che i russi avevano mandato all’O.Z.Na o mutuati dai tedeschi. Esattamente come nulla avevano di spontaneo i «tribunali popolari» gestiti da persone intenzionate a dare precisi messaggi politici e non da arrabbiati intenti a vendicare torti, veri o presunti, commessi dagli italiani o dai fascisti. Cade così, secondo Apih, una delle più grandi bugie sulle foibe: cioè che alla base di quei fatti vi fosse una sorta di follia collettiva partita dal basso, una sorta di jacquerie che nessuno poteva controllare. Le foibe erano contemporaneamente propaganda e terrore: «Ai fini degli organizzatori dell’insurrezione, contava talora più un’esecuzione come messaggio politico ideologico che come fatto di giustizia». E se l’esecuzione aveva modalità tipiche della giustizia tradizionale era perché si voleva far giungere un messaggio alle popolazioni non italiane per mobilitarle e coinvolgerle.
Questa è la lezione più importante degli studi di questo storico così attento alle fonti. Guardando ai fatti dell’Istria alcuni dati appaiono chiari nonostante decenni di rimozione (italiana) e di mistificazione (jugoslava prima, slovena e croata poi): nell’eliminare gli italiani dall’Istria qualcuno pensò che il terrore fosse un mezzo accettabile. In Istria il livello politico delle formazioni partigiane decise di fare propria una riflessione di Hitler: «Il terrore è l’arma politica più potente e io non intendo privarmene».

I titini non se ne privarono.

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