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Uccisi da caso e follia a un passo dalla pace. Gli ultimi oscuri caduti nelle guerre americane

C'è chi è morto per un ordine capito male Chi un minuto prima della fine del conflitto

Uccisi da caso e follia a un passo dalla pace. Gli ultimi oscuri caduti nelle guerre americane

Gli ultimi sono tornati dalla Corea dentro una cassettina di legno, sessantotto anni dopo essere partiti. Cinquantacinque ragazzi senza nome caduti nella guerra di Corea rimpatriati dall'accordo firmato da Trump e Kim Jong-un. Settemila e settecento risultano ancora dispersi. Non si sa se sono gli ultimi caduti e nemmeno se sono americani oppure no. Sono i soldati Ryan che nessuno è riuscito salvare, ma anche per loro adesso, come nel film, ci sarà una tomba bianca in qualche cimitero degli eroi con la bandiera a stelle a strisce piantata a lato, e nipoti, forse, che porteranno un fiore. La guerra di Corea è l'unica che non ha un ultimo caduto, 36.516 soldati americani morti tutti uguali, perchè l'America non rinuncia a confezionare statistiche anche su chi muore in combattimento. Perchè l'ultimo che cade è sempre una storia a parte, l'ultimo che cade è la linea di confine che divide la guerra dalla pace, il passato dal futuro, la vita dalla morte.

Uccisi dal caso o dalla vanagloria, da una missione inutile da un'impresa suicida, quando la guerra è ormai morta, quando la vita torna a riprendersi le vite degli uomini. Milioni di morti e poi lui, l'ultimo che muore, quando non è più necessario, quando non serve più, ammesso che le guerre lo siano, fuori tempo massimo o sul filo del gong, bastava niente e l'ultimo sarebbe stato un altro, bastava poco e lo sliding door della vita lo avrebbe infilato dentro un altro destino e portato via.

John J. Williams era un soldato dell'Unione, serviva la Compagnia B, 34mo Reggimento Veterani Volontari dell'Indiana. Aveva 22 anni, gli occhi infiammati di ideale e barba e baffi sempre curata. La guerra di Secessione, dopo quattro anni, era finita da poco più di un mese, con la resa sudista di Appamattox, un accordo tra gentiluomini congelava le armi in attesa del da farsi. Nonostante Unionisti e Confederati avessero un accordo da gentiluomini per non combattere, qualcosa in quei giorni di metà maggio, gli ultimi di John, andò storto. Cosa è ancora avvolto nel mistero: c'è chi dice che il colonnello Theodore Barrett, comandante del Reggimento, cercasse uno scampolo di gloria prima della fine con un ultimo assalto; chi che cercasse invece solo cavalli per i suoi trecento uomini stremati; chi che il motivo delo scontro fossero duemila balle contese di cotone di contrabbando. Sta di fatto che ordinò di attaccare i nordisti a White's Ranch e a Palmito Ranch. Quarantotto ore di battaglia senza senso, a guerra finita, vinta da chi aveva perso. 625 mila morti: Williams era l'ultimo. Perchè non si sa.

Henry Gunther aveva più o meno la stessa età, 23 anni e la guerra era stata per lui più difficile che per altri. Non si fidavano troppo di quel ragazzo dalle origini tedesche, da poco era stato degradato da sergente a soldato semplice. Faceva l'impiegato di banca nel Maryland, lo avevano arruolato nella 157ma Brigata, 79a divisione di fanteria, schierata in Francia nel luglio del 1918. La squadra di Gunther era rimasta intrappolata dai tedeschi vicino a Chaumont-devant-Damvillers, a nord di Verdun, ma dai comandi tutti era già arrivato un messaggio, la guerra finirà tra un'ora, non sparate più. Ma Gunther non ascoltò: scattò da solo all'assalto delle due sezioni di mitragliatrici tedesche che bloccavano la strada. I tedeschi, che non volevano sparare, lo fulminarono solo quando arrivò a pochi metri dalla loro postazione. Dissero che voleva riscattarsi agli occhi dei compagni, fare il kamikaze per onore. Erano le 10.59 dell'11 novembre 1918: morì un minuto prima dell'armistizio.

Il sergente Anthony J. Marchione, 20 anni, era artigliere e fotografo con il 20mo squadrone di ricognizione, seconda guerra mondiale. Nell'agosto del 1945, di stanza a Okinawa, volava su un B-32 spedito a fotografare Tokyo quando due degli aerei di scorta furono costretti a tornare indietro perché perdevano carburante. L'aereo di Marchione, si trovò così con la difesa dimezzatai, quando arrivarono gli aerei giapponesi non ci fu scampo: l'aereo fu ferito a morte da un colpo di cannone da 20 millimetri. Ci sono voluti quattro anni perché i suoi resti fossero rimpatriati nella sua casa a Pottstown, in Pennsylvania. Doveva fotografare dei bersagli dall'alto che ormai nessuno avrebbe più colpito.

Charles McMahon e Darwin Judge pensavano di avercela fatta. Poche ore ancora e il Vietnam li avrebbe restituiti alle loro famiglie, Charles in Massachusetts, Darwin nell'Iowa. Dopo il ritiro degli Stati Uniti nel 1973, poche decine di marines erano rimasti rimasti in Vietnam, pronti per essere evacuati dalla base aerea di Tan Son Nhut. Il giorno prima della resa di Saigon, McMahon, 22 anni, e Judge, 19 anni, furono uccisi da un ormai inutile attacco missilistico vietnamita. I loro resti tornarono a casa tre anni dopo grazie alle pressioni di Ted Kennedy.

Hanno tutti le stesse facce da ragazzini e c'è sempre una beffa nel loro tragico destino. Wyatt J. Martin, aveva 22 anni e veniva dall'Arizona, Ramon S. Morris, 37, e arrivava da New York, Terza Brigata Combat, Divisione di Cavalleria. Wyatt aveva meritato sei medaglie al valore, Ramon venti. Viaggiavano su un cingolato nella provincia di Parwan. quando una bomba sul ciglio della strada li ha fatti saltare in aria. Anche se le operazioni in Afghanistan sono ancora in corso, sono le ultime due vittime dell'operazione Enduring Freedom in Afghanistan. Diciannove giorni ancora e avrebbero riabbracciato la famiglia. Lo stesso destino toccato a David Hickman, anche lui ucciso a Baghdad da un ordigno nascosto sotto la strada. Si era arruolato con il 2° Battaglione dell'esercito, ancora un mese e l'operazione Iraqi Freedom sarebbe finita. «Sono orgogliosa di lui, è morto per il suo Paese» ha detto la madre Veronica. Dicono che a David piacesse Jim Morrison.

Cantava: «Un giorno anche la guerra si inchinerà al suono di una chitarra».

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