La vera storia di Giannini e dell’Uomo qualunque

Se non sbaglio, nel 1948 alle elezioni politiche partecipò anche un «Partito dell’uomo qualunque», i cui membri furono definiti «qualunquisti». Penso che oggi pochi ricordino quel partito, mentre il termine «qualunquista» continua ad essere usato. Spero che lei mi possa spiegare perché questo termine ha assunto una connotazione negativa. Forse per le infuocate campagne elettorali di allora?


Quarantaquattro, caro Casonato. Il primo numero de L’Uomo Qualunque, settimanale fondato e diretto da Guglielmo Giannini, comparve nel dicembre del 1944. Con già il suo marchio - un omino schiacciato da un torchio - e il suo motto: «Abbasso tutti!». Il primo numero vendette 25 mila copie per assestarsi, cinque mesi più tardi, a quota 850 mila. Il successo della pubblicazione fu dovuto a uno stile (quello di Giannini) e a uno stato d’animo (dei lettori, è ovvio). Caduto il regime, i politici che durante il ventennio avevano marcato il passo e le nuove leve antifasciste (a fascismo morto e sepolto) si buttarono, come è noto, a testa bassa e sgomitando a più non posso nella politica, della quale intendevano «riappropriarsi». Appropriandosi, nel contempo, del potere e delle sue frazioni, anche minuscole. L’uomo qualunque, ovvero l’uomo della strada, il signor Rossi, diffidò subito dei riappropriatori, dei loro altisonanti proclami, delle loro sperticate promesse di un futuro radioso e delle loro maiuscole (Pace, Libertà, Giustizia, Uguaglianza eccetera). Il signor Rossi si sentiva preso in giro e anzi, peggio: aveva capito che «lorsignori», come ai tempi veniva chiamata la «casta», lo ritenevano parte di una mandria, di quel «popolo bue» da portare disciplinatamente al pascolo. Beffardo e irridente, Giannini si fece interprete di quel disincanto prendendo per i fondelli politica e politici (una rubrica settimanale, galleria di caustici ritratti della nomenklatura, era titolata Pdf, che stava per «Pezzo di fesso»), le loro camarille, le loro ipocrisie, doppiezze e malandrinate. Il Partito comunista e quello socialista (ma anche, seppur con metodi meno spicci, la Dc) tentarono in ogni modo di zittire Giannini, un antifascista che era però - ed ecco il suo peccato - anticomunista e, soprattutto, nemico giurato degli antifascisti di professione. Il Commissario all’epurazione, il comunista Ruggiero Greco, si prese anche il disturbo di denunciarlo, ma senza esito, accrescendo semmai, il consenso all’Uomo Qualunque, che finì per costituirsi in partito. A dir la verità Giannini avrebbe preferito far convergere i suoi lettori nel Partito liberale, ma il Pli, anche per un veto preciso dell’allora ottantenne Benedetto Croce, non ne volle sapere. E fu così che nel giugno del ’46 fra le liste per la Costituente comparve il «Fronte dell’Uomo Qualunque». Programma: lotta al comunismo, tetto al prelievo fiscale, non intromissione dello Stato nella vita sociale e guerra ai grandi cartelli industriali a vantaggio della libera concorrenza. La lista riscosse il 5,3 per cento e Giannini mandò ben 30 deputati nel Parlamento convocato per scrivere la Costituzione. Andò poi a finire che snobbato dai partiti laici, schiacciato fra la Dc e il Pci, pesantemente avversato dalla Confindustria e dai «poteri forti», L’Uomo Qualunque e il Fronte dovettero chiudere bottega.

Di quell’esperienza resta solo il neologismo «qualunquista», al quale la politica diede subito, et pour cause, quell’accezione negativa che gli rimane appiccicata addosso.

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