Controcultura

Le vere guerre si combattono in famiglia

Eleonora Barbieri

Scrive Vivek Shanbhag che «la felicità di una casa poggia su atti selettivi di cecità e sordità». Quando qualcuno ignora, o peggio ancora contesta apertamente la necessità di questi atti selettivi, allora rimesta troppo le acque, e il marciume viene a galla. Così succede nel suo libro, che si intitola Ghachar Ghochar (Neri Pozza) e che Shanbhag ha scritto in kannada, la sua lingua, parlata nel sud dello stato indiano del Karnataka. Srinath Perur l'ha tradotto in inglese ed è diventato un successo, anche di critica, sia in India, sia in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ghachar Ghochar sono due parole che nessuna traduzione può spiegare: sono l'essenza dell'intimità, quel legame che si crea in una famiglia e porta a inventare un linguaggio comune e esclusivo. Nel lessico famigliare di Anita, la moglie del protagonista-narratore, significano una situazione ingarbugliatissima. E descrivono perfettamente ciò che accade a casa di questa famiglia di Bangalore formata dal protagonista, suo padre e sua madre, sua sorella Malati, sua moglie Anita (tre donne «una più temibile dell'altra») e, soprattutto, suo zio Chikkappa. È lui il vero capofamiglia, il suo «perno», perché la sua azienda ha permesso una ascesa sociale inarrestabile: dalla casa nel quartiere sovraffollato alla villetta su due piani, dalle economie per cui si programmava e condivideva ogni acquisto alle spese incontrollate, dal sogno di uno stipendio alla svogliatezza di non andare nemmeno a lavorare...

In questa famiglia, dove anche preparare fagioli a colazione è una dichiarazione di guerra, e la serenità dello zio un imperativo, il «punto di forza» è, come in tante altre, «fingere di desiderare l'inevitabile». Il problema è che Anita non finge. Non esita a dire ciò che pensa. E non si preoccupa di infrangere la regola numero uno della casa: l'unità assoluta dei suoi componenti, soprattutto di fronte a una minaccia esterna. È in questi casi che, insieme al marciume, in questo spazio chiuso e claustrofobico esplode la crudeltà. Questo non è il classico romanzone indiano, rutilante, polifonico, dalle vicende sovrapposte e lunghissimo: qui la rete è tessuta in cento pagine, emerge in dettagli precisi e soprattutto nel non detto, perché la pulizia del linguaggio allo stesso tempo copre e svela quanto c'è sotto.

Che è tutto aggrovigliato, alla fine.

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