Controcultura

Il vero scandalo in letteratura? È dire sì alla vita, dolore incluso

In una originale antologia, le cinquanta poesie che cambiano l'esistenza. Con le storie di chi le scrisse. Come il grande Testori

Il vero scandalo in letteratura? È dire sì alla vita, dolore incluso

H o conosciuto molti scrittori o intellettuali che pensavano o pensano di dare scandalo. Per quel che scrivono o per come si atteggiano. Alcuni ci costruiscono fortunate carriere. Ma lo scandalo vero è accettare la vita. Amarla. Non odiarla. Tutti gli altri tipi di scandalo sono per me cosette, quasi dei piccoli giochi. Sono cose da nulla dinanzi alla mia mancanza di scrupoli o di un senso morale che non sia, appunto, costituto solo ed esattamente da questa lama del sì o del no alla vita. Di fronte agli scandaletti dei puristi dello stile, degli articoli, dei titoli, di fronte agli scandaletti dei fatti che piacciono ai giornalisti o alle signore annoiate o a qualche ragazzetto inesperto, sta l'enorme scandalo che è la vita, la vita in sé. Lo scandalo di una esistenza non decisa, non posseduta, di questa enorme esistenza che sale come orca stupenda e terribile dagli abissi, e che trema ovunque come una ragazzetta abbandonata, questa cosa, da guardare a volte con occhi attoniti come quelli dei pazzi, dei bambini. Lo scandalo ci chiede di tornare bambini o diventare pazzi. E ci chiede con occhi di tigre: Dici sì o dici no?

Il vero scandalo, per me, è trovare poeti che al muso dell'orca, agli occhi della tigre, a un viso sconosciuto o a quello più consueto della compagna o moglie o figlio o collega dicano sì, sì, il tuo viaggio sia, conta su di me, il tuo destino sia... Questo è lo scandalo degli scandali.

Diceva di averci messo molto tempo a pronunciare questo sì alla vita. Giovanni Testori lo andavo a trovare in via Brera nel suo studio colmo e incasinato di quadri, di libri... A volte lo accompagnavo alle porte del Corriere della Sera, lì vicino.

Ci siamo visti spesso quando avevo venti, venticinque anni, mi invitava alle prime dei suoi spettacoli. Erano testi che scassinavano il teatro da dentro, emergevano da dentro la miglior letteratura e provavano a romperla, a farne venire fuori le vene azzurre e le viscere, le luci di diaspro e le verità di vita. La sua scrittura in lotta, la sua poesia in torsione per liberarsi dalla letteratura mi hanno segnato. Fu un rapporto intenso, duro. Mi maledisse per lettera. Gli avevo detto, sfrontatamente, che lui, no, non amava nessuno. Per telefono, da una cabina. Era piena di rabbia strana e di parolacce quella sua lettera. Aveva una grande rabbia addosso sotto gli occhi chiari. Non ci vedemmo per anni. Poi lo tornai a trovare. Ci rivedemmo molte volte. Fui tra i primi ad arrivare quando tutto per lui si consumò in una stanza del San Raffaele.

Pronunciare quel sì gli era stato impossibile per molto tempo. Allo scandalo dell'esistenza aveva opposto lo scandalo nella letteratura e nell'arte. Era un artigiano fantastico delle lingue, uno sperduto con gli occhi chiari, un coltissimo bambino di paese. Da lui ho imparato che l'arte deve sempre toccare il suo limite per restare veramente se stessa. Deve sempre arrivare là dove il teatro, la poesia, la pittura non sono più sicure nemmeno d'esser ancora teatro, poesia e pittura. Eppure restano e rinascono di più se stesse, umili ma vittoriose su ogni riduzione estetizzante, moralistica o ideologica, arte soltanto, arte come umano gesto e come spazio non abitato da altra convenienza se non di esporre, mostrare, condividere l'umana vicenda. Insomma, le arti devono correre verso il precipizio per spiccare, forse, il loro volo. Rischiando di cadere, anzi, in quella caduta iniziare il loro volo. Devono graffiarsi il viso per scoprire, forse, un viso sempre anteriore e sempre futuro. Pronunciare quel sì gli fu possibile solo quando a pronunciarlo fu sua madre, dinanzi al compiersi del destino, morendo. In quel punto accadde qualcosa che ogni parola come conversione o altri termini del genere non inquadrano, non dicono.

L'orca della esistenza aveva fatto entrare il suo muso grondante di oceani nella stanzetta dove la madre si consegnava al buio come a Qualcuno, e lo scrittore che si credeva scandaloso ebbe a subire lui il più grave scandalo. Quel sì di donna semplice si legava al medesimo sì che lo aveva fatto nascere. E per lui iniziò una avventura diversa, non meno tempestosa e scandalosa di prima. Solo che ora l'oggetto vero dello scandalo era quel sì che i suoi stessi personaggi, dilaniati nel corpo e nella lingua con cui provavano a dirsi sui palchi d'Italia (fosse il drogato Gino o Renzo dei Promessi sposi alla prova o Cleopatra o Amleto o il feto parlante o l'assassino), portavano in faccia all'epoca. In quegli anni mi laureavo con Ezio Raimondi. La tesi che, come ho detto, doveva essere sul rapporto tra parola poetica e senso della morte divenne sulla parola poetica e il senso della nascita. Perché il rapporto con la nascita, più che quello inafferrabile e infinitamente sfuggente con la morte, determina davvero la posizione nel mondo. Sulla poesia o su altro. Un sì alla nascita o una rabbia contro la nascita. In una sua riscrittura del testo di Shakespeare, compie una operazione straordinaria. Sostituisce il noto monologo su essere o non essere con una risalita, una indagine, tra delirio e invocazione, fino al momento del proprio concepimento. Andava spesso, Testori, con le sue parole, a indagare quell'attimo, quasi cercasse almeno un sì a cui legare la sua fluttuante vita, la sua sorte. Una consegna, almeno in un punto. Come se anche lui, Testori con dentro Amleto, come Rilke, chiedesse agli amanti nella verità almeno di quel momento, di quel sì che chiamava sperdutezza notizia su di sé. E io che sono...

L'amore forse è un mare da cui, attraverso viaggiatori, marinai, naufraghi, riceviamo notizie di noi. I racconti a volte sono confusi, ci sono allucinazioni, qualcuno racconta di grandi balene, orche e danze di delfini. Qualcuno ha gli occhi sbarrati come se avesse visto un fantasma. Altri hanno la luce delle onde nello sguardo.

I grandi autori arrivano sempre lì, a chiedere notizie agli amanti, come a dei navigatori.

Ho curato qualche anno fa, per Mondadori, una raccolta di poesie di Testori. Era, oltre che drammaturgo e scrittore d'arte, un vero poeta. Credo tra i più forti di un secondo Novecento che con Caproni, Luzi, Bertolucci, Zanzotto ha preso strade lontane dalla dominante montaliana, viva solo e in parte nella linea custodita e promossa poi da Vittorio Sereni. Montale naturalmente non poteva amare Testori, ne impedì una recensione sul Corriere della Sera. Lui, in via Brera, mi disse che tra i contemporanei leggeva Caproni. E scriveva cose come questa, che sempre mi sono rimaste impresse, per potenza e violentissima immaginazione:

Se tu venissi qui

Se tu venissi qui

adesso che il giorno

finisce nella sera;

se tu avanzassi

come fa il cervo nella neve,

se tu m'amassi un po' di più,

ti giuro, non potrei,

non vivrei più.

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