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"Il vero segreto contro la crisi? Trasformare le idee in imprese"

È il bisnipote di Ettore, il geniale fisico atomico scomparso nel nulla, e guida il "Kilometro Rosso": "Scienziati e industriali non si parlano"

"Il vero segreto contro la crisi? Trasformare le idee in imprese"

Il tratto autostradale della A4 che precede l'uscita di Bergamo è accompagnato da un muro rosso in alluminio estruso, alto 10 metri e lungo un chilometro. Il suo nome è dettato dal pragmatismo del territorio in cui sorge. Siamo al Kilometro Rosso, campus d'eccellenza dove convergono marchi, menti e aziende visionarie per fare ricerca, innovazione e impresa. Un parco tecnologico-scientifico con 70 partner residenti per un totale di 2mila addetti e ricercatori, 35 progetti finanziati per oltre 133 milioni di euro.

Alla cabina di regia siede Salvatore Majorana, direttore dal 2017, ingegnere, Master all'Insead, un passato - anche al fianco dell'attuale ministro Roberto Cingolani - all'IIT di Genova. Porta con scioltezza un cognome impegnativo: Ettore, suo prozio, geniale fisco scomparso nel nulla nella primavera del 1938, è il più noto di una famiglia di grandi scienziati ed economisti. Lui, Salvatore, opera all'incrocio tra finanza, scienza e sistema produttivo: al KR lavora perché la scintilla dell'innovazione accenda l'industria e affinché i prodotti che ne derivano, protetti da brevetti, finiscano sul mercato.

In Italia s'inventa ma non si brevetta. Manca la cultura della protezione del patrimonio intellettuale.

«Il brevetto è uno strumento fondamentale nel processo di innovazione. Consente di connettere chi crea la novità con chi la porta sul mercato, facendone un valore condiviso per la comunità. Le realtà presenti al KR, ad esempio, hanno depositato finora 580 brevetti, segno che l' attenzione c'è, ma nel nostro Paese il complesso delle conoscenze che non vengono coperte da brevetti è enorme. In assenza di questo strumento di protezione, emergere sul piano internazionale è molto più difficile, e si rischia di condannare le nostre imprese a restare piccole e incapaci di difendere le proprie competenze difronte ai grandi gruppi».

Tra l'altro il brevetto è un'invenzione italiana.

«Dietro ai grandi cambiamenti planetari degli ultimi 150 anni, pochissimi lo sanno, c'è tanta Italia. E c'è anche un problema. Meucci ha inventato il telefono ma è stato Bell a brevettarlo creando un'industria. Olivetti ha inventato il calcolatore elettronico poi venduto all'IBM che ne ha fatto un'industria. Federico Faggin, fresco di studi all'Università di Padova, ha inventato il primo micro-processore. La lista è lunga.»

... e ci dice che le invenzioni vanno protette ma anche finanziate. È quello che cercate di fare qui.

«Quando Alberto Bombassei, il presidente del Kilometro rosso, mi propose di sviluppare un piano di trasferimento tecnologico per il territorio ritenni che ci sarebbe stato spazio anche per la creazione di un Fondo di venture capital. Bisognava dotarsi di quegli strumenti che permettessero alla ricerca di trasformarsi in nuova impresa. È così che dall'incontro con Anna Amati, Stefano Peroncini e Massimo Gentili, nasce il progetto Eureka! con il quale investiamo in idee che provengono dai centri di ricerca italiani nel settore dei materiali avanzati».

E sempre al KR, quest'anno è nato il Fondo Cysero con un contributo di partenza di 15 milioni da parte di Alberto Bombassei, Angelo Radici e Pierino Persico.

«Sono capitali che andranno a promuovere lo sviluppo della cybersecurity e robotica al servizio della persona, e avere imprenditori che credono in questo progetto è imprescindibile. Il fondo coniuga la sua natura finanziaria con un deciso imprinting industriale, elemento indispensabile per lo sviluppo di aziende ad alta tecnologia. Cysero è un esperimento nuovo per il nostro Paese, alla ricerca di un collegamento efficace tra la finanza, anche istituzionale, e il territorio, in particolare il territorio fatto di eccellenze manifatturiere. Crearlo con un punto di riferimento nel Kilometro Rosso è un segnale sia per l'area imprenditoriale lombarda sia per il Paese, a volte chiuso in schemi precostituiti.

Ricerca-innovazione-industria. È una triangolazione necessaria ma ancora per niente ovvia.

«Ricordo un grande ricercatore che disse a un gruppo di imprenditori: Il brevetto è fatto, il resto è solo industrializzazione».

E gli imprenditori?

«Basiti. Lui era convinto che il suo lavoro fosse completato. In realtà il trasferimento di competenze dal mondo della ricerca alle imprese va aiutato. I due mondi tenderebbero a vivere in modo autonomo ma non se lo possono permettere».

E i vaccini anti-Covid19 lo stanno dimostrando.

«La pandemia ha insegnato proprio questo. La ricerca scientifica spesso consente di superare le difficoltà, ma se non la aiutiamo ad affacciarsi al mondo dell'industria, la soluzione rimane nel cassetto. Fare trasferimento tecnologico vuol dire liberare energie e valore per la società. Senza questo anello il cittadino paga le tasse per generare conoscenza che non ritorna perché non passa dalle industrie».

Perchè da noi è così difficile anticipare i tempi anziché inseguirli come accade di solito? In alcune parti del mondo, vedi Singapore, il Covid è il passato e già si lavora per la prevenzione di pandemie e cataclismi futuri.

«Il trasferimento avviene grazie al coinvolgimento di tecnici, scienziati, imprese e dell'attore politico. Io ho sempre visto tecnici e industriali fare programmi di lungo termine. L'attore politico è concentrato su cosa succederà entro le due settimane successive. In Europa siamo costantemente in campagna elettorale, bravi a raccontare le storie e meno a progettarle. E questo, mentre in Cina si fanno piani trentennali. Certo, lì le elezioni sono proforma. Ma ci sarà pure un compromesso fra il goderci il bello della democrazia e il bello del progresso».

In concreto il direttore di un parco scientifico che cosa fa?

«Io passo ora fra incontri, web-conference e telefonate, poi la sera inizia la seconda parte: scrivo. Sono giornate ad altissima intensità relazionale perché per far accadere le cose è imprescindibile la relazione tra le persone. Ci muoviamo in una rete e quando tocchi un pezzo devi sapere quanti altri pezzi si muoveranno insieme, e in tal caso vanno promosse le accelerazioni ed evitati i ritardi. Poi c'è uno studio continuo per conoscere e approfondire i contenuti di cui si va a parlare. Ho la fortuna di relazionarmi con ricercatori e imprenditori con competenze straordinarie e che quindi accrescono anche le mie».

Lei che studente è stato?

«Ho sempre studiato tanto e volentieri. Da bimbo, al rientro dalla messa con la nonna, facevamo sosta in edicola per comprare Topolino e i fascicoli dell'Enciclopedia delle scienze. La mia lettura iniziava sempre dall'enciclopedia. Se si è curiosi, riesce facile studiare. Poi ho sempre applicato un principio trasmesso da mio padre: nella vita devi fare quello che ti fa piacere fare, ma se non puoi, fatti piacere quello che devi fare».

E arriviamo alla Sicilia. Lei viene da una famiglia di intellettuali formidabili, però non è ugualmente scontato costruirsi un profilo come il suo.

«In realtà mi sento fortunatissimo, soprattutto se mi paragono ai miei figli che crescono a Milano. La Sicilia regala una dimensione personale e interpersonale che la metropoli non dà. Penso che la mia capacità di generare relazioni sia maturata proprio grazie a quel contesto. E comunque a 14 anni già ero negli Usa per un periodo di studio, il primo di una serie. Tra l'altro le esperienze all'estero mi hanno insegnato che in Italia si studia molto bene, anche se manca il taglio pratico della formazione anglosassone. L'ideale è riuscire ad amalgamare i due approcci».

Qual è la versione della famiglia Majorana quando si parla del giallo della scomparsa di Ettore?

«Chiedere alla famiglia Majorana una posizione univoca è un'avventura. Ricordo una riunione di famiglia con parenti arrivati da mezzo mondo. Parenti stretti eppure eravamo in 92. Mio trisnonno aveva sette figli e ognuno ne ebbe fra i cinque e i sei. Siamo tanti».

Allora vediamo la versione di Salvatore Majorana.

«Ettore è stato un genio assoluto, fuori scala. Così ne parlano persone geniali come Fermi e chi ha lavorato con lui. Ancora si scoprono elementi del suo lavoro rimasti fino ad ora incompresi e che dimostrano quanto fosse avanti. Gli zii mi riferivano di un Ettore per nulla avulso dal contesto in cui si muoveva, comprendeva perfettamente la situazione storica. Nel 1933 accaddero due cose importanti. Ettore andava a Lipsia da Heisenberg e lì scoprì una limitazione nella teoria del grande scienziato che proprio per quella teoria aveva vinto il Nobel. Heisenberg disse al mio prozio di rendere pubblica la falla. La cosa lasciò esterrefatto Ettore che scriveva alla madre quanto fosse sorpreso del fatto che Heisenberg, invece di invitarlo a stare zitto lo spingeva a pubblicare i propri studi. Così, in Germania, da un lato aveva trovato un ambiente estremamente stimolante, e dall'altro proprio in quell'anno aveva assistito al rogo dei libri a suggello dell'affermazione del Nazismo. Quando vivi questa dicotomia, torni in Italia, quasi ti imponi per farti dare una cattedra, la ottieni e verifichi che non tutti gli studenti brillano, e nel frattempo le leggi fasciste avanzano, metti assieme i puntini e prendi una decisione. S'aggiunga che nel 1938, anno del Nobel a Fermi al quale chiesero di indossare la camicia nera per il ritiro del Premio, Fermi aveva deciso di trasferirsi negli Usa. Penso che Ettore abbia trovato il suo modo per stare in pace, per sottrarsi a quel contesto. Nelle lettere alla famiglia parlava con grande ironia dei tedeschi che sui treni battevano i tacchi con marzialità imperante e crescente. Li prendeva in giro. Sapeva valutare. E decise».

Torniamo al Kilometro Rosso e ai suoi 70 partner sotto uno stesso tetto che devono creare connessioni, interagire, scambiare conoscenze. Quanto è naturale questo processo?

«Non è ovvio che mettendo 70 soggetti diversi in unico luogo l'innovazione accada per osmosi naturale. A volte succede. Ma serve un catalizzatore della reazione, serve un enzima che promuova il processo. Noi qui ci occupiamo di stimolare le aziende a parlarsi, creiamo l'occasione. E se non rispondono, li stimoliamo nel senso che andiamo fisicamente a prenderli nei loro uffici. Questo è il mestiere di chi opera nei parchi scientifici».

E fra i parchi scientifici che relazioni ci sono?

«Siamo il nodo di una rete di 350 parchi in cinque continenti, e all'interno c'è una rete di parchi italiani con cui siamo soci. Un complesso come il nostro va oltre i confini fisici della sua presenza. Capita che dall'associazione parchi scientifici internazionali riceviamo richieste di soluzioni ai problemi che nascono in altri parti del pianeta.

Lei nasce ingegnere, si prende un Master in business e poi si occupa di Fondi di investimento. Come si diventa direttore di un parco scientifico?

«Prima cosa. Si tende a considerare accessorio il lavoro di chi fa da matchmaker ritenendo che il vero lavoro sia di chi fa ricerca o fa industria. Invece bisogna rivalutare e investire anche in questo settore, mancano profili di professionisti che abbiamo comprensione delle dinamiche aziendali, della tecnologia e dei rispettivi linguaggi, e che infine sappiamo arrivare a una sintesi. Anni fa visitai il MIT, la Columbia e Berkley per capire il funzionamento statunitense del tech-transfer. Mi impressionò il commento del mio omologo al MIT: Se da noi non hanno fatto almeno dieci anni di lavoro nell'industria, non li prendiamo perché non saprebbero come funzionano le aziende. Mentre in Italia si puntava su neolaureati, lì già allora andavano a prendere professionisti addirittura a fine carriera.

Ci sarebbe uno spazio enorme per valorizzare i nostri cinquantenni se solo mettessimo a frutto le competenze maturate nelle imprese».

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