Cultura e Spettacoli

VINTAGE La sorpresa del cappello «illibato»

Vecchi e mai indossati Così devono essere gli oggetti per i quali fare follie

VINTAGE La sorpresa del cappello «illibato»

Non è solo feticismo, né roba vecchia o unicamente old-new, cioè mai indossata. Anzi, il vintage è tutte queste cose qui (e moda dilagante), ma soprattutto è desiderare di entrare nella pelle non tanto di un altro corpo bensì di un’epoca, meglio: di un’epoca particolare, «giusta», proprio quella lì e mai un’altra. Insomma come il vino.
Bisogna che la gonna, la giacca, la scarpa, l’accessorio per essere vintage deve essere «d’annata» come una buona bottiglia di vino. Non a caso il termine non viene dall’inglese ma è francese e sta, appunto, per «vendemmia»: raccolta delle uve. Dunque la parola è usata per definire alcuni vini di annata, difficilmente ripetibili. Unici... così come erano uniche, e magari indossate per una serata, le pellicce di leopardo in mostra al Palais Royale, o in qualche vetrina chic dei Passages parigini - ora le boutiques del Marais e tutt’intorno a place des Vosges pullulano di vintage anni Cinquanta, Sessanta, Settanta... Ma ormai anche da noi, da Milano a Firenze, Roma, Verona, i pezzi unici, cult, fanno bella mostra e accendono di desiderio chi vuole entrare nella epidermide di un tempo che magari non ha vissuto.
Ecco che allora i capi vintage illuminano di struggimento e leggerezza colui o colei che li indossa. Stoffe, tagli, rifiniture, pellami, taglie, stile, senso dell’eleganza: ogni cosa è passata, un po’ sgualcita, eppure ci rifocilla di grazia, ci fa sfilare non nel quotidiano ma sulla passerella dei giorni, come fossimo divi magari del calendario e non del cinema. Eppure sempre divi, a braccetto con gli stilisti di cui non potremmo (o non vogliamo) comperare gli abiti nuovi, perché anche se volessimo o potessimo non avremmo quell’indumento «d’annata», esattamente di quella stagione della storia, del costume, della vita ormai rétro e quindi non contagiata e volgarizzata dall’attuale.
Così va a finire che non si sfugge al feticismo e al culto. Pensate alla felicità di chi trova unico al mondo un giubbino o una camicina o una magliettina di Emilio Pucci, Hermès, Pierre Cardin, Capucci, Versace, Givenchy, Balenciaga, Sorelle Fontana, Christian Dior. Oppure, per gli anni Ottanta che stanno dilagando, una robina di Jean Paul Gaultier, Vivienne Westwood, Kenzo, Comme des Garcons, Yamamoto... Chi avesse la fortuna (ma non è così difficile. Questo si vende!) di trovare un pezzo unico di Emilio Pucci, poniamo degli anni Cinquanta, credo che invece di riporlo nell’armadio lo terrebbe in una teca di plexiglas proprio come un’opera d’arte, terrorizzati al pensiero che si sciupi.
Ora c’è da dire che se il vintage (ricercati sono innanzitutto i capi dai fine Cinquanta agli Ottanta) si lega all’immagine dei divi, degli attori, dei personaggi che hanno con il loro carattere, talento, tragedia, incarnato un’epoca, allora si ha per le mani una specie di ex voto da venerare. Non può non venirmi in mente il giubbotto modello A-2 (aviator) indossato da Steve McQueen in La grande fuga, o il suo Barracuda o i pantaloni Cheno o quelli a sigaretta. E che dire del giubbino rosso di James Dean in Gioventù bruciata? O di quello di Fonda (figlio) in Easy Rider, da vero biker, con la bandiera americana? Oppure vogliamo evocare il Marlon Brando che se ne andava in moto (Il selvaggio) con la sua banda indossandone uno con un teschio e due pistoni stampati dietro la schiena? Insomma, è chiaro, chi riesce a trovare il modello originale di quell’epoca fa bingo! Non solo si porta a casa una figata, ma indossa letteralmente la vita di un mito. Non soltanto lo celebra, ma se lo infila addosso.
Di recente, a Milano, ho conosciuto Riccardo, un ventiseienne che sa tutto di vintage, perché, oltre a essere un appassionato, lavora in un negozio appunto vintage dalle parti di Brera. Riccardo è una specie di memoria storica milanese conquistata sul campo. Uno che ha lavorato agli inizi con quegli altri due ragazzi milanesi che, nel 1998, due anni prima che il fenomeno scoppiasse in Italia, dopo che in Giappone faceva già tendenza, prendono e vanno negli Usa a cercare proprio quei giubbotti indossati da Dean, da Brando, da McQueen. Anzi, subito dopo, comprano i diritti di immagine per l’Europa dell’attore scomparso e incominciano a produrre in serie limitata perfino la sacca con la quale il fanatico della velocità scappa dal campo di concentramento.
E così faranno con James Dean, con Fonda (il suo giubbotto sarà rifatto identico a Biella), con Kennedy (la loro monomarca produrrà il famoso blazer del presidente con il logo presidenziale) sulla barca a vela nel ’62, con Audrey Hepburn, con Marilyn, con Twiggy: la modella «grissino» targata Settanta. Però il feticcio non è tale (pure se stoffa, taglio, dettagli, lavorazione sono identici all’originale) se la produzione non è limitata e se l’indumento non è custodito dentro una scatola sulla quale è stampata la foto del Divo. E così è, e così si fa. Quindi anche le riproduzioni di Linus sulle magliette spingono il vintage a saltare verso gli Ottanta... Però solo quando ho incontrato Riccardo ho scoperto che cosa sono i «magazzini morti»: i deadstocks.
I giapponesi, primi su tutti e in tempi non sospetti, si erano sguinzagliati in Usa e in Europa a caccia di magazzini colmi di merce invenduta. Una sorta di camposanti della moda e della bellezza, o città dei balocchi carichi di polvere per via dell’adultità di Pinocchio e del suo amico Lucignolo. Magazzini morti: è un titolo fantastico per un noir, meno che per i legittimi proprietari che nella probabile storia recitano la parte più delle vittime che dei killer, avendo sul groppone quintali di merce invenduta. Ma non c’è problema, mi racconta Riccardo, ecco che arrivano i giapponesi e anche se non tirano fuori una lira per svuotare i magazzini, i proprietari sono contenti lo stesso perché altrimenti dove avrebbero messo quelle tonnellate di scatole e vestiti? Come avrebbero potuto continuare a pagare gli affitti per merce che non sarebbe mai stata venduta? A rifletterci: la storia dell’abito old-new, ovvero del vintage, o meglio della recente estetica del vestire elegante, singolare, sobrio o eccentrico, nasce da un «camposanto», sebbene di lana, cotoni, sete e altro, anziché umano. Comunque, sul vintage, apprendo altre cose. A esempio, la storia dei «cacciatori di scarpe».
Pare che ci siano in Italia, a Milano in particolare, dei cacciatori di scarpe. Soprattutto di Nike (le più ricercate, quelle americane, dal primo anno di produzione, il 1971, fino al 1980), Adidas (produzione tedesca), All Star. Questi giovani milanesi, girano il mondo, per lo più gli Usa, a fare incetta di scarpe «vecchie», ma mai usate. Come se le scarpe fossero delle vecchie zitelle rimaste bambine, cioè candidamente vergini. Per i cacciatori le scarpe non devono essere state indossate neppure una volta. Illibate, le vogliono. Pena, la morte del mito; la definitiva impossibilità di attraversare i carboni ardenti della contemporaneità, calzati di tutta tendenza.
Innanzitutto, i cacciatori sono degli storici e cronisti delle scarpe che vanno a cacciare. Di loro sanno quante ne sono state prodotte, in che anno, in quale Paese, città, regione, in quale fabbrica, da quali operai, con quale materiale sono state costruite, quale è il livello della concia o la tenuta della tela, quali personaggi famosi le hanno indossate, quando sono uscite di produzione, su quali mercati possono essere rivendute, quale è l’identikit del potenziale cliente... Poi, magari, vanno a caccia di Nike in Usa, dove sono state prodotte per soli nove anni.
Ecco che allora i cacciatori di scarpe puntano un magazzino morto (non ce ne sono quasi più, e se lo trovassero è come trovare il tesoro) e prima ancora di controllare la marca della scarpa, i cacciatori l’annusano, la toccano, perché il problema, ricordiamolo, è trovare una scarpa illibata, mai indossata. Poi c’è il problema della tomaia, a esempio. La tomaia di una scarpa sta bene al piede come il pneumatico alla sua automobile. È un problema di essiccazione, o rigidità, o frantumazione del materiale. Insomma, come per le gomme anche per le scarpe bisogna stare attenti alla vulcanizzazione. Infatti, tale e quale a un pneumatico, se la suola di una scarpa non è elastica, morbida, integra, che cosa ce ne facciamo? Dunque è bene che i cacciatori tra le innumerevoli conoscenze storico-sociologiche, estetico-culturali, siano provvisti di olfatto e tatto.
Ora mi rivolto tra le mani una Nike Usa dei primissimi Settanta. È d’argento. Il materiale usato è come il suolo lunare. Anzi, è identico alle tute spaziali dei primi astronauti che raggiunsero la Luna. Infatti proprio di quello si tratta. Se uno la mettesse sotto una campana di plexiglas potrebbe essere scambiata per un’opera da «arte povera». Poi quando afferro anche la sinistra, con tutte e due tra le mani, noto che gli inserti rossi sono lievemente sbiaditi come il velo di una sposa degli anni Sessanta. Argento e rosso sbiadito è curioso che alla fine addizionino un vestito da sposa.
È vero. Questi indumenti non scartano il fascino. Lo amplificano. In loro il tempo non è volatilizzato. Pare invece che si sia addensato e come ingentilito, come se l’epoca, l’annata nella quale sono nati, soltanto adesso possa essere compresa e assaporata. Come se ora fosse migliore rispetto al passato. E poi ci sono anche gli abiti da sposa vintage. Pensate: dentro uno di questi abiti bianchi ci si sposa tre volte in una. Così con un antico taglio di satin o organza o tulle e merletti, si fa fuori anche divorzio.


(19. Continua)

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