Cultura e Spettacoli

La vittoria degli impostori nell'era del Grande fratello

Finti sopravvissuti alla Shoah e all'11 settembre, artisti imbroglioni, scrittori «inesistenti». Nella realtà e nella letteratura, è il momento delle false identità

La vittoria degli impostori nell'era del Grande fratello

Il problema non è (solo) quello che passa per la testa di chi inganna: è anche quello che passa per la testa al mondo intorno, quando decide di credergli. Costruirsi una vita fittizia è facile: basta intercettare la corrente giusta e infilarcisi senza remore, senza dubbi, senza vergogna. Oddio, Steve Rannazzisi ora dice di essere «davvero dispiaciuto», e di «potere soltanto chiedere perdono». Però per un decennio questo comico americano ha sostenuto pubblicamente di essere sfuggito alla strage dell'11 settembre: ha raccontato che, mentre il primo aereo si schiantava nella Torre Nord, lui era alla sua scrivania negli uffici di Merril Lynch, al 54esimo piano della Torre Sud. È scappato in strada e, dal marciapiede, ha visto anche il secondo aereo colpire la Torre Sud. Tutto falso: non solo lui non si trovava lì, ma Merrill Lynch - spiega Serge F. Kovaleski in un lungo articolo sul New York Times - non aveva nemmeno uffici al World Trade Center. E su questa bugia, precisando perfino che «non voleva speculare», Rannazzisi ha costruito una nuova vita e una nuova carriera come comico a Los Angeles.

Rannazzisi è stato smascherato pochi giorni fa. È il destino degli impostori, quando qualcuno si prende la briga di indagare. Ma, quando la menzogna è resa pubblica, nessuno fa bella figura. Per dire, Alicia Esteve Head, alias Tania Head non solo è entrata nel World Trade Center Survivors' Network, ne è diventata la presidente. Solo che l'11 settembre non si trovava al 78esimo piano della Torre Sud: era a Barcellona.

A modo loro, gli impostori sono bravissimi. Sono affascinanti. Nuovi Argomenti ha dedicato agli Impostori il suo ultimo numero (Mondadori): otto racconti-ritratto di altrettanti maestri di inganno, protagonisti di «un destino tragico» scrive Filippo Bologna nell'introduzione, dove individua ciò che distingue gli impostori contemporanei: «Mentre ieri venivano o dicevano di venire da luoghi remoti e inaccessibili così da poter nascondere informazioni sul loro conto, oggi vivono nella villetta accanto alla nostra e sono direttamente loro a fornire informazioni». Non li frena neanche la prudenza: «Hanno bigliettini da visita, lauree comprate in Albania, PhD tarocchi presi a Chicago, home page, profili Facebook e account Twitter» in cui si prendono ciò che più desiderano, l'ammirazione degli altri. Perché nessuno li scopre, spesso per anni? Bologna dice perché, «in nome della riservatezza», nessuno controlla; c'è anche che i «controllori», magari, hanno qualcosa da nascondere. Chissà che cosa può succedere, una volta sollevato il tappeto. Può succedere che uno sia un grande pittore, come Arshile Gorky, uno dei padri dell'Espressionismo astratto americano; ma che non sia cugino o nipote di Maksim Gorky, che non sia russo (bensì armeno), che non sia mai stato nemmeno allievo di Kandinskij. Una finzione tale che, come scrive Manuela Maddamma nel suo saggio, «perfino Mougouch, sua moglie, scoprì la verità solo una decina d'anni dopo la morte di Gorky». O può succedere che uno metta a segno una serie di grandi interviste a grandi scrittori, tutte false: e che riesca a «tramutare una figura di merda in una rivendicazione poetica» scrive Luca Mastrantonio nel capitolo-intervista dedicato a Tommaso Debenedetti; perché «nel nuovo millennio, in molti settori la differenza tra un cialtrone e un genio è sempre meno chiara». Del resto, perfino Vargas Llosa definì Enric Marco, il grande imbroglione di Spagna, «spaventoso e geniale». Marco, cioè L'impostore , protagonista dell'ultimo romanzo di Javier Cercas (Guanda): l'uomo che si è fatto passare per un sopravvissuto del campo nazista di Flossenbürg (in realtà era un lavoratore volontario in Germania), il prigioniero numero 6448 e che - scrive Cercas - per ventisette anni, fino all'11 maggio del 2005, quando uno storico ha svelato al mondo la verità, «aveva vissuto quella menzogna e l'aveva fatta vivere... aveva tenuto centinaia di conferenze sulla sua esperienza del nazismo, aveva presieduto la Amical de Mathausen... aveva ricevuto importanti onorificenze e decorazioni e il 27 gennaio 2005 aveva commosso in qualche caso fino alle lacrime i parlamentari spagnoli». È stato fermato appena prima che pronunciasse un discorso nel campo di Mathausen, per il sessantesimo della liberazione. Enric Marco, dice Cercas, ha fatto leva sul «prestigio della vittima» e sul «prestigio del testimone»: chi osa mettere in dubbio la vita di un sopravvissuto? Ha giocato sulla scarsa memoria, sull'ignoranza a cui fingeva di voler rimediare. E sul buonismo, a cui ha fornito materia ideale per quasi tre decenni. La verità? Marco è stato, era ed è «l'uomo della maggioranza» (ha arricchito il suo passato anche di una partecipazione alla guerra civile spagnola come anarchico e di una militanza antifranchista), «ciò che noi tutti siamo, soltanto in maniera esagerata, più grande, più intensa e visibile». Più ridicola, soprattutto per la verità che svela del mondo intorno a lui. Cioè noi. La letteratura dell'Olocausto è un filone prolifico, dove ex vittime fasulle hanno esercitato la fantasia, costruito trame, vinto premi, venduto centinaia di migliaia di copie, commosso il pubblico: da Binjamin Wilkomirski a Herman Rosenblat (ospite perfino due volte da Oprah Winfrey) fino a Misha Defonseca che, come ricorda Carlo Alberto Brioschi su illibraio.it, non ha mai attraversato l'Europa a piedi con un branco di lupi e non era ebrea, bensì di famiglia molto cattolica. Anche un altro ragazzino aveva commosso i lettori alla fine degli anni Novanta: J.T. LeRoy, abbandonato dalla madre due volte, con problemi psichici e di droga, ha scritto tre bestseller prima che si scoprisse che non esisteva, era una quarantenne di Brooklyn Heights a caccia di successo e dei giri letterari giusti (e in effetti li aveva trovati).

Il falso è così vero da essere finito in un Museo, il Falseum di Verrone (Biella), un progetto descritto così dal direttore Errico Buonanno (sempre su Nuovi Argomenti ): «Esporre proprio il niente: fare un museo dell'inesistente, di cose mai nate, di voci infondate e di illusioni collettive». Un niente che però «può smuovere eserciti, cambiare la Storia; può creare e distruggere nazioni, come, più e meglio di un evento reale». Dopo che il sipario cala, l'inganno è davanti agli occhi di tutti, il re è nudo, ma presto avrà dei vestiti nuovi. «Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola anche una maschera» (è Nietzsche, in Al di là del bene e del male ). L'impostura è quasi più naturale della verità, e a volte ci soddisfa molto meglio della realtà.

È un vero peccato che sia falsa.

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