Cultura e Spettacoli

VON MEYSENBUG Un ’48 da salotto

L’emancipazione della donna nelle memorie di un’intellettuale tra le più celebri della seconda metà dell’800

La migliore descrizione di lei la fece forse Friedrich Nietzsche, in una lettera che le scrisse nel gennaio del 1880: «Lei, che venero e amo come una sorella maggiore (...). Credo - ma sono immodesto forse? - che i nostri caratteri abbiano molte affinità. Per es., abbiamo entrambi coraggio, e né difficoltà né disistima potranno allontanarci dalla strada che consideriamo giusta. Inoltre abbiamo entrambi vissuto, in noi e fuori di noi, talune cose la cui luce è stata scorta soltanto da pochi dei nostri contemporanei - nutriamo speranze per l’umanità e ci offriamo umilmente come vittime, non è così?». Ma allora lei, Malwida von Meysenbug, era già un’anziana signora che da circa vent’anni viveva in Italia, in una sorta di dolce e malinconico esilio, lontana dalla sua terra e da quella storia di cui era stata una delle protagoniste.
Era nata nel 1816 da una famiglia di funzionari e di ministri dei duchi d’Assia, così, nel 1830, quando i venti di rivolta, partiti dalla Francia, arrivarono anche nella sua città e colpirono la sua casa, attaccata perché fedele al potere, lei aveva l’età per restarne solo sconvolta.
Nel 1848, invece, era una donna. E quella rivolta, anzi quella rivoluzione, poté viverla e ne fu a tal punto protagonista da farla diventare Il mio Quarantotto, quella parte delle sue memorie che ora escono dalle Edizioni Spartaco (pagg. 181, euro 12) con il sottotitolo Emancipazione della donna e libero pensiero dalla «Memorie di una idealista».
A 32 anni Malwida si trova di fronte al vento della storia e se ne rende subito conto: «Una corrente elettrica si propagò in fretta ovunque (...). Ovunque sbocciava una vita nuova». Questa volta non è più una ragazzina, ma una donna che sa ciò che vuole, e così dal vento si fa travolgere: «Ero disposta a fare cose inaudite. Mi sarebbe piaciuto trovare il nemico sulla soglia della piccola chiesa e uscire tutti insieme cantando il corale di Lutero e pronti a combattere o morire in nome della libertà. Il popolo abbandonava i tuguri uscendo allo scoperto con lo sguardo curioso e il senso di ingenuo stupore di chi è rimasto per lungo tempo al buio e torna a vedere la luce».
Sono giorni, settimane, mesi straordinari. Ciò che finora i liberali di mezza Europa avevano solo sognato, di cui si erano limitati a parlare o, al massimo, a scrivere, sembrava realizzarsi. Malwida assiste, e lo racconterà, alle riunioni dei Vorparlament, che dovevano preparare l’assemblea nazionale degli stati tedeschi. Sogna e crede in quella lotta per l’emancipazione delle donne che lei combatterà e di cui sarà vittima: «Finora soltanto alle donne benestanti era stata concessa l’indipendenza. Ma che cosa dovevano fare quelle che non possedevano nulla? Per la prima volta compresi la necessità per la donna di raggiungere la propria autonomia economica con le proprie forze».
È il momento dei sogni, delle lotte. E delle illusioni, Perché presto la storia riprende il suo corso, inesorabile: «Quei successi, però, vennero guastati ben presto dalle più fosche preoccupazioni. La reazione rialzò il capo vittoriosa». Per Malwida la sconfitta è doppia: oltre a quella politica, c’è anche quella familiare. Tra i ministri del governo, tra i nemici del potere, c’è anche uno dei suoi fratelli, Wilhelm, uno di quelli che guidarono la repressione contro gli insorti che la sorella appoggiava. E che, a nome della famiglia, contrastava anche il suo amore per Theodor Althaus, un teologo libero pensatore più giovane di lei di sei anni. «Venivo trattata come una vera e propria delinquente e il rapporto di fiducia tra la mia famiglia e me finì (...). Per la prima volta mi rendevo conto chiaramente che è necessario affrancarsi dall’autorità della propria famiglia, per quanto doloroso possa essere, nel momento in cui essa uccide la nostra individualità e assoggetta la libertà di pensiero e di coscienza a una determinata convinzione. La libertà di pensiero e una vita conforme ai principi in cui si crede sono il primo diritto e il primo dovere di ogni persona. Fino ad allora le donne erano state escluse da questo diritto sacro e dall’altrettanto sacro dovere; soltanto il matrimonio e la Chiesa avevano autorizzato la donna ad abbandonare il posto che per natura le era stato assegnato».
Ma quello per Theodor è un amore destinato a naufragare, come ogni cosa nella vita di Malwida: lui s’innamorerà di un’altra donna e la lascerà, eppure lei continuerà ad amarlo, fino a quando lui morì nel 1852, e forse anche dopo, perché: «Era questo che ci distingueva: io lo avevo amato di quel profondo amore femminile che abbraccia l’intera vita, mentre lui mi aveva riservato l’amore di un poeta, che è circoscritto a una fase dell’esistenza».
Malwida non ha neanche quarant’anni ma il vento della storia è ormai passato, sulla sua vita, e le ha lasciato soltanto macerie, sconfitte e ricordi. Pensa di partire per l’America, per un mondo nuovo, ma ancora una volta la famiglia si oppone e lei, che aveva creduto nella rivoluzione, ora non ha più la forza per ribellarsi a madre e fratelli. Allora, s’impegna in una scuola per poveri, ad Amburgo. Quando questa verrà chiusa dal governo, decide che è troppo, e parte per Londra, dove la storia fa incrociare la sua strada con quella di Aleksandr Herzen, dei cui figli diventa istitutrice. Lì conosce Mazzini, Garibaldi, Kossuth e altri; poi va a Parigi, dove fa amicizia con Baudelaire, Berlioz e Rolland, che la considererà la sua «seconda madre».
Quindi, il trasferimento in Italia e l’incontro con Nietzsche e i lunghi anni del silenzio e dell’oscurità, che però non la piegarono se è vero che, nel 1884, Nietzsche le mandava il suo Zarathustra dicendole «desidero proprio la Sua vicinanza come desidero un cielo terso».

E il cielo di Malwida si spegne nel 1903, a Roma, oltre mezzo secolo dopo la morte del suo Quarantotto.

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