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Vuò fa' l'americano ma tresca da italiano. E piazza tutti gli amici

Il ministro della Cultura sbandiera il rinnovamento solo a parole. Ha messo direttori stranieri nei musei però solo fedelissimi nei posti chiave

Vuò fa' l'americano ma tresca da italiano. E piazza tutti gli amici

Al cospetto di Dario Franceschini, Ponzio Pilato era un menefreghista dilettante. Qualche settimana fa, davanti al tracollo del tesseramento al Partito democratico, il ministro della Cultura ha risposto così: «Non parlo del Pd, sono un ministro tecnico». Altro che le mani, si è lavato braccia collo e torace, lui che del Pd è stato segretario dopo Walter Veltroni e prima di Pier Luigi Bersani, è capo della corrente Areadem e continua a tessere ragnatele di rapporti che vanno da Enrico Letta a Graziano Delrio.

Franceschini è un padre fondatore del partito democratico, ex democristian-popolare-margheritico come Prodi e Rosi Bindi: si iscrisse allo Scudocrociato quand'era segretario Benigno Zaccagnini. Non è un pischello toscano dell'ultim'ora. Eppure del Pd non parla, perché adesso è un tecnico dei beni culturali. Il curriculum direbbe tutt'altro: il signor ministro è un politico di lungo corso, avvocato, iscritto all'albo dei revisori contabili ed ex membro del collegio sindacale dell'Eni. Dovrebbe quindi intendersi soprattutto di società e finanza. In virtù di tale competenza - così almeno pare di capire - qualche anno fa è stato pure consigliere di amministrazione della Fondazione Cassa di risparmio della natia Ferrara, oggi disastrata. Ma a chi gli chiede del dissesto della banca cittadina, passato sotto silenzio rispetto al clamore di Banca Etruria, replica con una domanda sprezzante: «Debbo dimettermi o direttamente costituirmi?».

Egli ormai si vorrebbe esprimere soltanto su questioni tecnico-culturali di cui si picca essere esperto. Infatti ha scritto quattro romanzi, fa parte della giuria del premio Strega e alle primarie Pd del 2009, dove fu sconfitto da Bersani ma ebbe l'incomparabile soddisfazione di stracciare Ignazio Marino, fu sostenuto tra gli altri da un parterre intellettuale di prim'ordine formato da Andrea Camilleri, Nanni Moretti e Jovanotti. Nomi tra i quali non compare quello dello scrittore e regista Stefano Benni, che lo scorso settembre si è rifiutato di ritirare il premio «Vittorio De Sica» attribuito ogni anno dal ministero dei Beni culturali. Ecco la ragione del rifiuto: «Questo governo sembra considerare la cultura l'ultima risorsa e la meno necessaria». Più che una motivazione, un epitaffio sull'operato del ministro. Nelle interviste Dario Franceschini esterna soltanto di musei e Pompei, di sponsor e colossei, di cinema e «caschi blu della cultura» che fanno così fino nei discorsi pronunciati davanti all'Unesco. Ma la sua vera specialità è un'eredità della vecchia scuola Dc. E cioè piazzare gli amici nei posti giusti, e gli amici degli amici, sostenendo che si tratta soltanto di scelte tecniche. Nomine su nomine: strategia dell'immagine. Lo aveva fatto la scorsa estate quando aveva scelto 20 nuovi direttori dei principali musei italiani, prendendone sette dall'estero ma soprattutto valorizzando, chissà perché, persone che gravitavano sulla Toscana. Agli Uffizi Eike Schmidt, esperto di arte fiorentina. A Brera James Bradburne, con un passato alla Fondazione Strozzi. Alla Galleria nazionale dell'Umbria Marco Pierini, con un passato al centro d'arte contemporanea Palazzo delle Papesse di Siena. Al Museo archeologico di Napoli Paolo Giulierini proveniente dal Museo etrusco di Cortona. La nomina franceschiniana più sfortunata è stata quella di Paola Marini, direttrice del Museo di Castelvecchio a Verona ripulito di 17 capolavori la sera in cui la manager festeggiava il passaggio alle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Un paio di mesi dopo il ministro ha sfornato altre 114 nomine alla guida di altrettanti musei statali non dirigenziali: 48 storici dell'arte, 36 archeologi, 30 architetti. Accanto al direttore è stato spiegato siederanno un curatore delle collezioni, un responsabile dei rapporti con il pubblico, un responsabile dell'amministrazione e uno della sicurezza. E per fortuna che, l'indomani dell'insediamento, Franceschini aveva annunciato che la sua ricetta per rivitalizzare i musei italiani era: «Largo ai privati». Idea non del tutto abbandonata, visto che alla fine dello scorso ottobre ha lanciato «un appello molto preciso a 20 grandi imprese italiane» perché «adottino ciascuna uno dei 20 musei diventati autonomi», cioè abbandonati dallo stato.

Anche l'ultimo contingente di nomine è un elenco di fedelissimi. Con le supernomine di manager stranieri Franceschini voleva fare l'americano ma poi ha continuato con le care vecchie abitudini. Nel consiglio di amministrazione degli Uffizi il ministro ha piazzato (oltre al direttore del Polo museale della Toscana e a Paolo Fresco, ex presidente Fiat che vive a Fiesole) due componenti della commissione che ha scelto i 20 superdirettori, il giurista Lorenzo Casini, consigliere giuridico di Franceschini e autore della riforma dei musei, e Claudia Ferrazzi, ex numero 3 del Louvre e membro del Consiglio superiore dei beni culturali e paesaggistici. Un altro consigliere del ministro («esperto per la riorganizzazione dell'amministrazione periferica, dei musei e delle società in house») nonché membro del Consiglio superiore, Stefano Baia Curioni, è stato piazzato da Franceschini nel consiglio di amministrazione del Museo autonomo di Brera. Baia Curioni, docente di economia dell'arte alla Bocconi, siede pure nel cda del Piccolo Teatro di Milano.

Il regolamento del Consiglio superiore vieta ai suoi componenti di sedere nel consiglio di amministrazione di «istituzioni o enti destinatari di contributi o altre forme di finanziamento da parte del ministero». Significa forse che per queste prestigiose realtà culturali i rubinetti romani stanno per chiudersi?

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