Whitman, l’America in prima classe

Se lo devo fare, non posso rimandare oltre. Affastellati alla rinfusa e legati insieme con un grosso spago ci sono stralci di diario, ricordi di guerra (1862-1865), impressioni sul paesaggio (1877-1881) e successivi appunti di viaggio sul West e sul Canada: materiali così diversi, pieni di salti e lacune... \
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Nei tre o quattro mesi seguenti (da settembre a dicembre del 1879) ho intrapreso un bel viaggio nel West, arrivando fino a Denver, Colorado, e partendo da lì per visitare le Rocky Mountains, quel tanto che è bastato per farmi un’idea di quei luoghi. Sono partito dalla stazione di Philadelphia una sera di metà settembre, dopo le nove, e ho viaggiato in un confortevole vagone letto. Nessun ricordo delle due-trecento miglia attraverso la Pennsylvania; il mattino seguente, colazione a Pittsburg.
Una vista piuttosto bella della città e di Birmingham - avvolte dalla nebbia umida e dal fumo, fornaci di carbone, fiamme, case di legno stinto, e numerose chiatte per il trasporto del carbone. Al momento, un po’ di bei territori, la Virginia occidentale, i Panhandle e, attraversato il fiume, l’Ohio. Una giornata trascorsa in quest’ultimo Stato, quindi l’Indiana - e, infine, lo sferragliare del treno mi prepara al sonno della seconda notte, mentre sfrecciamo con la velocità della folgore attraverso l’Illinois.
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Parlando in generale delle potenzialità e del destino certo di quest’area di pianure e praterie (più vasta di qualsiasi singolo regno europeo), la si immagina come inesauribile terra del grano, del mais, della lana, del lino, di ferro e carbone, della carne di manzo e di maiale, di burro e formaggio, di mele e uva - la terra vergine per dieci milioni di nuove fattorie. A vederla ora, sembra ancora una terra selvaggia e improduttiva, ma gli esperti sostengono che, non appena sarà adeguatamente irrigata, vi crescerà presto tanto grano da poter sfamare il mondo intero. E quanto al paesaggio (se proprio devo esprimere il mio pensiero e il mio sentire), so bene che in genere si considerano Yosemite, le cascate del Niagara, Yellowstone e simili come i paesaggi più spettacolari del nostro continente; tuttavia, io credo che le praterie e le sterminate pianure, pur colpendo assai meno al primo sguardo, lascino poi un ricordo più duraturo, e appaghino maggiormente il senso estetico, primeggiando su ogni altra cosa, e siano dunque l’essenza del tipico paesaggio nordamericano.
E infatti, di tutti gli spettacoli e di tutta la varietà di paesaggi in cui mi sono imbattuto durante il viaggio, ciò che mi ha più impressionato, e che rimarrà in me più a lungo, è proprio la vista di queste praterie. Giorno dopo giorno, e notte dopo notte, esse si sono rivelate ai miei occhi, e a tutti i miei sensi (a quello estetico sopra tutti), generosamente, in silenzio. E ora, anche le più semplici statistiche che le riguardano mi sembrano straordinarie.
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Non sono particolarmente soddisfatto di ciò che vedo nelle donne che vivono in queste città delle praterie. Mentre scrivo queste righe, me ne sto pigramente seduto in un locale di Main Street a Kansas City. Un fiume di gente scorre lungo i marciapiedi: le signore (come a Denver) sono tutte vestite eleganti, e in viso, come anche nei modi e nei gesti, ostentano un’aria «distinta». E tuttavia nessuna di loro sembra far trapelare nell’aspetto, o nel portamento che ritengono consono, una qualche traccia di una nobile e innata originalità fisica o intellettuale (a differenza degli uomini, che certo manifestano la loro spiccata personalità). Sono «impegnate» e alla moda, ma hanno tutte un che di asettico e bamboleggiante, essendo evidentemente la loro unica aspirazione quella di scimmiottare le loro sorelle della East Coast. Ci sarebbe bisogno di qualcosa di ben diverso, più all’avanguardia, per bilanciare e completare la superba virilità del West, trasmettendola e mantenendola viva nel tempo.
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Poter godere in prima persona della vista di New York e Brooklyn (non è forse tempo che i due municipi vengano riuniti sotto l’unico nome di Manhattan?), cogliendo durante la mia permanenza quella che definirei un’umanità nell’animo e nell’aspetto di queste grandi moltitudini oceaniche in perenne fermento, è stata per me l’esperienza migliore. Dopo un’assenza di molti anni (me ne sono andato allo scoppiare della guerra di secessione, e da allora non sono più tornato) eccomi nuovamente qui, pieno di curiosità, a riprendere contatto con le folle e le strade che conosco così bene: con Broadway, con i ferry, con la parte occidentale della città e la democratica Bowery. E ritrovo i modi e l’aspetto della gente che s’incontra in questi luoghi, ma anche intorno ai moli, o nel perpetuo viavai di vetture a cavallo, o nei battelli gremiti di turisti, a Wall Street e Nassau Street di giorno o nei locali di divertimento di notte: un qualcosa di vorticoso, rigurgitante e fluido come le acque che lo circondano, un’umanità sterminata in tutti i suoi stadi, e poi ancora Brooklyn. Catapultato in tutto questo, per tre settimane.
Non c’è bisogno di scendere nei dettagli: basti dire che (pur con le dovute riserve per le ombre e le venature marginali di città da un milione di anime), dovendo sintetizzare le mie impressioni su queste immense città, sulle loro qualità umane, le ho trovate confortanti, persino eroiche, al di là di ogni definizione. Espressioni vivaci, figure generalmente ben proporzionate in buona salute, occhi limpidi e diretti, la singolare combinazione di reticenza e disinvoltura con un’indole simpatica e socievole; in prevalenza una gamma conforme di modi, gusti, intelligenze, certo più di quanto non si trovi in qualsiasi altro luogo del mondo; e una palpabile fioritura di quel solidale cameratismo cui io guardo come al più sottile e tenace dei collanti futuri per questa variegata Unione: aspetti che non solo si colgono qui, in questi imponenti canali di umanità, ma che costituiscono ovunque la regola e la media.


Oggi potrei dire - incurante dei cinici e pessimisti, ma nella piena consapevolezza delle loro ragioni - che un approfondito studio di valutazione sull’attuale popolazione newyorkese sarebbe la prova più concreta finora disponibile per dimostrare la buona riuscita della Democrazia – fornendo altresì una soluzione pratica al paradosso di dover conciliare la piena libertà individuale con la collettività dominante.

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