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Wulff si dimette perché in Germania la giustizia funziona

Non è l’etica pubblica dei politici che dobbiamo invidiare ai tedeschi ma la credibilità e l’efficienza della magistratura

Wulff si dimette  perché in Germania  la giustizia funziona

Dopo avere resistito alcuni mesi, il Presidente della Repubblica tedesca Christian Wulff si è arreso quando la Procura ha chiesto al Bundestag l’autorizzazione a procedere contro di lui. Ha lasciato all’istante il suo seggio e si è messo a disposizione dei giudici.
Quant’è bravo! hanno esclamato con invidia molti italiani, abituati ai nostrani attaccamenti alla poltrona. Si può capirli, ma vanno fatte distinzioni.

Ne basta una: c’è magistratura e magistratura. Le toghe tedesche godono eccellente fiducia nel loro Paese, quelle italiane sono tra le meno rispettate. E con ottime ragioni.
Nel 1999 in Germania ci fu uno scandalo politico-finanziario di dimensioni maggiori di quanti ne siano venuti alla luce in Italia con Tangentopoli. Helmut Kohl, il grande cancelliere della riunificazione tedesca, fu impiccato a due maxi tangenti incassate dal suo partito, la Cdu, anni prima. Una mazzetta derivava dalla vendita di carri armati all’Arabia saudita. La seconda fu versata dall’allora inquilino dell’Eliseo, il socialista François Mitterrand, per l’acquisto da parte di Elf Aquitaine di un ente petrolifero dell’ex Ddr. L’ammontare delle tangenti era enorme. In un conto corrente ginevrino furono trovati 300 milioni di marchi. Cifre simili, in Italia, non si sono mai viste.

Kohl (già pensionato e senza incarichi istituzionali) non negò i fatti, che erano incontrovertibili. Tuttavia, nelle more del processo, si buttò a corpo morto nella ricerca di finanziatori per una colletta con la quale risarcire la cresta. Racimolata la somma, la restituì. La procura prese atto e in meno di un anno la causa fu archiviata. Nessun accanimento, nessun tentativo di uscire dai confini della faccenda per demonizzare l’ex cancelliere o il suo partito. Fu considerato un errore, si riconobbe che era stato fatto il dovuto per metterci riparo e che la sanzione del pentimento virtuoso era sufficiente per punire il politico e ristabilire l’etica pubblica. La stampa, soddisfatta, ritirò le armi che nella fase iniziale aveva sfoderato bellicosamente.

Giudicate se questo andamento cristallino sia paragonabile al caos della nostrana Tangentopoli o ai casini che capitano quando le toghe si imbattono nei reati della politica. Innanzitutto, mai una volta che le accuse siano certe e - come nel caso di Kohl (e di Wulff)- «incontrovertibili». I fatti, da noi, sono tutt’al più supposizioni. Gli indizi nascono da intercettazioni ambigue, soffiate di pentiti stragonfi di interessi personali, teoremi strampalati di pm immersi fino al collo nella lotta politica, e altre cose così. Insomma, una totale incertezza del diritto e delle prove. Tant’è che una dozzina di anni fa dovemmo riscrivere l’intero articolo 111 della Costituzione (processo giusto) per costringere i giudici, ormai totalmente anarchici e dimentichi, a raccogliere e valutare la prova secondo logica e legalità.

Se, con questo chiari di luna, un politico italiano dovesse dimettersi - come sarebbe sacrosanto e come in Germania si può ragionevolmente fare - ogni volta che un giudice indaga su di lui, non saremmo un Paese virtuoso ma, tre volte di più, un Paese delle banane. Ricordiamoci che il Cav è stato indagato per mafiosità, tanto come mandante delle stragi di Falcone e Borsellino, quanto per le bombe che, nel 1994, seminarono morte e distruzione. Allora: doveva dimettersi lui o dovevano essere presi a pedate gli inquirenti? Finché gli italiani non sapranno rispondere a questa domanda i loro politici non potranno comportarsi come quelli tedeschi. L’Italia non è la Germania. È, dunque, fuori luogo l’invidia di cui si parlava all’inizio, perché le due magistrature sono incomparabili.

Lasciamo il Berlusca perché scatena le opposte partigianerie. Prendiamo il defunto O. L. Scalfaro, quintessenza del politico buono, l’uomo che aveva indossato la toga in gioventù e che, da allora, si sentì per sempre magistrato. Anche lui, però, accusato per i fondi riservati, né si dimise, né affrontò il processo. Disse: «Non ci sto» e rimase sul Colle. Doveva invece fare come Wulff? La materia era incerta e gli italiani non glielo chiesero. La magistratura poi lo assolse, dando ragione al suo comportamento poco tedesco.

Giovanni Leone, invece, fu teutonico. Messo alle strette, lasciò mesto il Quirinale. Anni dopo, si scoprì che era stata una colossale montatura politica, giornalistica e giudiziaria. Un inutile trauma, per Leone e l’Italia.

E la conferma che, se a Berlino c’è il mitico giudice giusto, a Roma c’è invece il famigerato Palazzaccio.

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