«Yamaha night» contro le droghe

Matteo Chiarelli

«Come vi è un unico sole nel firmamento, e un'unica potenza del cielo, così io solo devo regnare sulla terra».
Così diceva di sé il terribile Gengis Khan mentre si lanciava alla conquista di quello che sarebbe divenuto il più grande impero della terra. Le tribù della Mongolia di cui era a capo dominavano ormai sotto il suo comando dalla Siberia a Baghdad, dal Mar cinese al Mar Caspio. Era il 1200 e l'Europa tremava stupefatta davanti all'audacia bellicosa di uno dei maggiori geni militari della storia. Rifletteva, temendolo, il filosofo e teologo inglese Ruggero Bacone: «Verrà l'anticristo a mietere l'ultimo spaventoso raccolto, verrà perché il mondo paghi i propri peccati». Ma alle leggende sulla figura del condottiero mongolo, ritratto come personaggio crudele e feroce, fanno da contraltare le parole di Marco Polo che lo dipinse in ben altra maniera: «Fu uomo di grande valenza, di senno e di prudenza, che tenea signoria bene e francamente».
Sulla popolazione mongola e sul suo celebre eroe, da oggi al 15 settembre, l'Umanitaria (via Daverio 7), con la collaborazione dell'Associazione Culturale Soyombo, propone la mostra etnologica, curata da Roberto Cossu, «Mongolia, la dimora dei cieli» (Spazio Auditorium, ingresso libero). L'esposizione presenterà una serie di pannelli didattici e di oggetti, moderni o appartenenti alle antiche tradizioni, attraverso cui approfondire la cultura, gli usi e i costumi della nazione asiatica.

Divise per sezioni, verranno affrontate le tematiche dell'abbigliamento (con costumi tradizionali mongoli), delle abitazioni (sarà esposta la ricostruzione di un'unità abitativa, completa di stufa, tavolino, sgabelli ed oggetti vari), della religione (in mostra reliquiari, immagini sacre in terracotta, libri di preghiera e rosari), dell'arte (acquerelli e dipinti), della musica (tipici strumenti a corde), della guerra (riproduzioni di arco, turcasso e staffe del XVII secolo) e infine dell'organizzazione sociale di un paese che si presenta oggi come uno sconfinato territorio, esteso cinque volte l'Italia, dove meno di tre milioni di abitanti vivono tra steppe e deserti, e di cui la metà rimane ancora dedita, come un tempo, alla pastorizia nomade.

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