Cultura e Spettacoli

Zanzotto, il poeta delle radici Dalla provincia capì il mondo

Zanzotto, il poeta delle radici  Dalla provincia capì il mondo

La poesia di Andrea Zanzotto aveva trascinato con naturalezza nel ventunesimo secolo i segni – linfe e scorie – di cui s’era nutrita nella seconda metà del ventesimo. Sovraimpressioni (2001) e poi Conglomerati (2009) apparivano infatti un coerentissimo corollario di Meteo che nel 1996 poteva forse valere come un «commiato» dal Novecento. Commiato precario, s’intende, immerso nel clima insicuro che sempre di più connotava il cammino di questa lirica.
Se i primi documenti sono anteriori al 1940, è a partire dal ’51, con Dietro il paesaggio, che il nome di Zanzotto si fa «presente» avvertita nel panorama della nostra poesia. Ipotizzavo in Meteo una raccoltina di congedo, ma credo di dovermi subito correggere, perché semmai il commiato dal Novecento era arrivato un po’ dopo, col «Meridiano» del settembre 1999; tutte le poesie e una scelta di prose, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta. Quello sì, con l’imponenza e la gloriosa mestizia del monumento (più di 1800 pagine), potrebbe essere stato un effettivo «congedo», col suo aspetto di totalità, di esperienza creativa squadernata. Lo pensava magari lo stesso Zanzotto, mentre soccorreva lui direttamente i curatori-annotatori dell’opera là dove altri non ne sarebbe mai stato capace, ossia negli innumerevoli nodi ambigui, criptici per una sovrabbondanza di riferimenti culturali e incroci di lingue (qua e là perfino di grafìe) che, almeno dagli anni ’60, costellano la pagina del poeta.
Zanzotto, se riesce «oscuro», non lo è per puntiglio o per programma. D’altronde la sua presa di distanze dalla Neoavanguardia fu tempestiva, recisa. Ma nel corso della sua maturità più piena, egli si era dato a registrare-interpretare il molteplice di cui siamo irrimediabilmente impastati. Traspare in questo una sorta di responsabilità sociale, se vogliamo; mai esibita peraltro né predicata. Sedentario, poco propenso a staccarsi da Pieve di Soligo (vi era nato il 10 ottobre del ’21), alla sua specola giungevano tuttavia l’essenza e la sostanza della scatenata-sgangherata modernità e della sovente ridicola post-modernità.
C’era la poesia, ma continuamente specchiata in «altro». Fin da principio, in Zanzotto. Non era arcadia il giorgionesco ameno fondale dei colli della Marca, in Dietro il paesaggio e quindi nel più bello dei suoi libri, Vocatio, uscito nel ’57 cioè nel medesimo anno di Onore del vero di Luzi e delle Ceneri di Gramsci di Pasolini. L’idillio eventuale cedeva sotto l’urto d’una prima arrembante pianificazione industriale; la sopravvivenza di una «buona gente» era angustiata, soffocata dal cemento. Il solco tra l’ieri e l’oggi, nella previsione di un domani peggiore, si approfondiva: oltreché nei versi, lo scenario lo si riscopre in alcuni racconti, inclusi anch’essi ora nel «Meridiano». Si corrompe il mondo, se a quel borgo armonico e operoso viene rubata man mano l’identità originaria, alterata in uno col dialetto: la lingua del nido, più tardi chiamata da Zanzotto «vecio parlar».
Nell’io-poeta si produce una «faglia» psichica. La nevrosi diventerà una patologia, che però mobilita più che mai la parola alla raffigurazione dello sfacelo in atto. È, il decennio ’60, una delle molte elaborazioni del tema dell’«alienazione» quella che ci dà Zanzotto. Altri ne sofferse o ne ragionò per schemi; lui, no di certo. E chi legga le IX Ecloghe (1962), lo vede immediatamente, con la mortificazione dell’universo bucolico e la sua riconsacrazione per assurdo nell’immortalità dell’Antico (una nozione che arriva fino a quel che nel tempo ci sta immediatamente alle spalle; il Piave, i luoghi e le battaglie di cui avremmo poi ritrovato le croci e le vestigia ne La Beltà).
Fragile come una bolla d’aria, perituro e forse già perito, il mondo primario di Zanzotto annovera «caratteri» che non si dimenticano. L’oste Nino o la maestra Morchet – nelle raccolte in cui cominciano a esistere per noi e in altre dove riemergono: da La Beltà, 1968, a Pasque, 1973, fino alle più recenti – sono depositari di una saggezza e di una collaudata pedagogia degne di ascolto perenne.
La Beltà, che ho appena citato, ebbe nel fatidico Sessantotto onore e attenzione più di altri titoli del poeta di Pieve di Soligo. Posso dire che per i poeti più giovani, allora, si dischiusero – al cospetto de La Beltà – strade suggestive e che parecchi di loro intuirono che non c’erano solamente i due corni del solito dilemma: o con il populismo di Pasolini o con la tabula rasa della Neoavanguardia. Per fortuna, Zanzotto era difficile da imitare. Nell’ambito del «vecchio parlar», godettero discreta fama le sequenze che Zanzotto scrisse per il Casanova di Fellini. Ma nel dialetto l’apice espressivo a me pare toccato in Idioma (terzo libro d’una «trilogia» inaugurata nel ’78 col Galateo in bosco e proseguita nell’83 con Fosfeni).
Ragguardevole anche l’esercizio della critica letteraria. Poco incline al «medaglione», Zanzotto preferiva afferrarsi a un particolare che gli sembrasse significativo, a un sintomo. Petrarca o Michaux, Zanella o Éluard, per non dire Leopardi o Foscolo, una spia metrica o un tic gli bastavano per risalire alle radici, alle ossessioni determinanti: a quelle debolezze che possono costituire il nerbo e il fiato della poesia. Fantasie di avvicinamento (1991) suona come titolo azzeccatissimo per la silloge che raccolse una sezione cospicua di questi scritti.
Signore e ostaggio di una cronica nevrosi – argomento e favola sulla cerchia dei suoi amici –, Zanzotto era un lettore curioso, anzi vorace, e non solo di cose strettamente letterarie. Per quanto compete alla letteratura, forniva indicazioni proficue ad allargare il campo, le prospettive. Se mi è consentito un inciso personale, a me fresco di laurea consigliava di accostarmi a Lacan, a Foucault...
A tanta duttilità e disponibilità ricettiva, nonché al rilancio di ogni provocazione della storia e della cronaca, si deve, io suppongo, il crescere dell’autorità e della esemplarità di Zanzotto. Più che libri, pubblicava testi scheggiati, non-libri, nei quali un’accennata curva melodica si frange al contatto-contagio di voci diverse, neologismi, monosillabi di qualsivoglia interiezione. Lacerti di lingue rudi e allotrie, sul foglio che ospita anche il nero delle cancellature e le varianti di quella che parrebbe la lezione salvata, definitiva. In un pullulare di barre e trattini e corpi grafici di varia grandezza, il cristallo di una pronuncia pura, il guizzo lirico, se splende, ha lo strano scintillio del chimerico, dell’impossibile.

Intanto che papaveri e topinambur, fiorendo su velenose discariche, prendono il posto delle rose e dei gigli, cari ai poteri d’altre età.

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