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Pechino pronta a ridurre i missili puntati su Taiwan

La Cina comunista è pronta a ridurre il numero dei suoi missili puntati contro l’isola-Stato di Taiwan, la Cina nazionalista al di là dello Stretto governata dagli eredi di Chiang Kai-shek, il generalissimo sconfitto da Mao nella guerra civile del 1949. Un alto rappresentante del Kuomintang, il partito nazionalista tornato al potere a Taipei dopo otto anni di interregno degli indipendentisti di Chen Shui-bian, ha appena concluso un viaggio a Pechino dal quale è tornato con importanti segnali di distensione, pur in un contesto complesso.
Quello relativo ai missili è certamente uno dei più rilevanti. La Cina tiene infatti puntati contro Taiwan circa 1300 missili di crociera e a corto raggio, inquietante supporto alle sue minacce di ricondurre un giorno «alla madrepatria» con le buone o con le cattive quella che considera una provincia ribelle. Dopo la rivincita del Kuomintang e l’elezione alla presidenza del pragmatico Ma Ying-jeou il clima sembra però volgere, dopo anni di tendenza temporalesca, al sereno. E così quando Wu Poh-hsiung, presidente del partito nazionalista di Taiwan, ha chiesto ai suoi ospiti di Pechino che cosa intendessero fare dei missili puntati contro il suo Paese, è arrivata al posto delle solite minacce una «reazione amichevole»: la Cina, ha risposto il portavoce di una delegazione che comprendeva il presidente Hu Jintao, ha intenzione di non schierarne di nuovi, in vista anzi di una futura riduzione.
È solo un segnale, naturalmente. Wu ha infatti aggiunto che dall’altra parte non è stato fatto alcun riferimento ai tempi di attuazione né all’entità dell’ipotetico ritiro. Ma in Cina funziona tutto così: tempi lunghi, parole misurate e tanta, tanta pazienza. Sono numerosi, del resto, i temi sul tavolo negoziale tra due Paesi che non si riconoscono reciprocamente e che giocano una delle partite diplomatiche più complicate e interessanti del pianeta. Uno di questi è il braccio di ferro per il riconoscimento internazionale: solo 23 Paesi al mondo scelgono ancora di scambiare ambasciatori e relazioni privilegiate con la piccola Taiwan invece che con il gigante cinese (farlo con entrambi non è possibile) e si tratta di nazioni minuscole o impoverite, tanto che si è talora parlato rispetto a quella taiwanese di «diplomazia dell’assegno».
Con il chiaro obiettivo di azzerare la legittimità internazionale della «provincia ribelle», negli ultimi tempi Pechino ha messo mano al portafoglio e ha cominciato a comprarsi una per una oscure nazioni africane o dell’Oceania, arrivando a un totale di 170 nel mondo. Il presidente Ma ha proposto a nome di Taiwan un «cessate il fuoco diplomatico» e sembra che Pechino non intenda restare sorda.

Oltre a questo, con una certa sorpresa degli osservatori, Hu Jintao ha detto di voler concedere alla isolata Taiwan maggior spazio sulla scena internazionale. E sembra disposto a rinunciare all’annoso veto all’ingresso dell’isola nell’Organizzazione mondiale della sanità, magari sotto il nome di «Taipei Cinese» già usato in ambito sportivo.

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